Il fantasma che attraversa tutta l’architettura della relazione del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, è l’azzeramento di ogni negoziazione sociale nel Paese. Vista dal principe degli econometristi, dal sommo sacerdote di quel sistema di controlli e misure che annualmente radiografano il sistema economico del Paese – qual è appunto il capo dell’apparato monetario, che non potendo più agire sulla gestione della massa di valuta non può che affidare al potere di suggestione dei dati che controlla la propria rilevanza politica –, si tratta di un azzeramento che produce storture perfino per chi dovrebbe essere esclusivamente proteso alla valorizzazione del capitale e degli investimenti. Innanzitutto l’assenza di negoziazione, quindi di conflitto sociale, comporta una riduzione del potere d’acquisto delle retribuzioni generali, con un inevitabile effetto depressivo sui consumi interni. Secondariamente, si distorce l’intero sistema dei salari e degli stipendi, con un inselvatichimento delle relazioni d’impresa, e di conseguenza con un incremento dell’economia precaria o nera.
Per questo Visco, dopo aver constatato il prolungarsi della vitalità del sistema italiano, che anche quest’anno, nonostante le previsioni, arriverà a sfiorare il 2% di aumento, con una solida performance dei servizi rispetto alla produzione industriale, si permette di caldeggiare il ricorso al salario minimo, come norma per sostenere e rianimare l’intera gamma delle retribuzioni, a cominciare proprio da quelle vaste zone d’ombra che caratterizzano il mondo dei servizi. Una proposta, questa, che va in rotta di collisione esplicita con il governo che – saldamente posizionato alla difesa di un patto sociale basato sulla convergenza di assistenza più evasione fiscale – punta a un ulteriore iniezione di liberismo nelle imprese, lasciando mano libera ai responsabili di paghe, scarse, e di contributi quasi niente. Ma anche il sindacato, che fa comunque buon viso e cattivo gioco, mastica amaro dinanzi alla constatazione della propria marginalità nella determinazione della scala delle retribuzioni.
Visco ha anche spezzato una lancia in favore di un sistema fiscale progressivo, e dunque contro le suggestioni peroniste della flat tax leghista. Infine, in questo suo testamento politico (siamo all’ultima relazione prima dell’uscita di scena per decorsi termini del mandato), il capitolo sul galleggiamento del Paese, ancora più grave vista la congiuntura favorevole, in cui giovani e sistema del welfare continuano a languire, privati di una visione e di una reale volontà politica di dare una svolta al declino.
In questo quadro, sullo sfondo delle ultime elezioni – non solo italiane – inevitabilmente tocca a sinistra porsi una domanda: ma com’è possibile che in una spirale positiva dei fatturati e del rischio d’impresa, il sistema proprietario, a ogni latitudine, guardi alla destra più radicale e speculativa, anche rischiando una rottura traumatica con i mercati europei?
È una domanda che rimane sospesa da tempo, dopo le ultime batoste elettorali. Già dopo la prima clamorosa défaillance del marzo del 2018, con l’affermazione giallo-verde di Lega e 5 Stelle, non si riuscì a comprendere come aree, quali quelle del Nord, che pure godevano di attenzioni e sostegni da parte dei governi partecipati dal Pd, avessero apertamente scelto il campo più estremo, com’era allora la Lega salviniana. Oppure come il Sud, dove pure non erano venute meno strategie di spesa, avesse optato per la protesta assistenziale grillina. Ma la svolta apertamente reazionaria, che ha portato nel 2022 una erede missina a Palazzo Chigi, ha reso ineludibile il quesito.
Negli anni dei governi Conte 2, e soprattutto Draghi, il combinato disposto di privilegio al credito d’impresa, sotto tutte le forme, compresa una tollerata evasione, con i provvedimenti più capillarmente assistenziali, quali il reddito di cittadinanza a pioggia, non poteva certo avere deluso i diversi blocchi geo-sociali. Eppure il Nord ha clamorosamente abbracciato, dopo l’autonomismo finanziato centralmente di marca leghista, una opzione reazionaria, che inevitabilmente rendeva problematica la partnership europea, di cui i tessuti imprenditoriali del lombardo-veneto sono fornitori fedelissimi.
Oggi i dati che ha illustrato Visco rendono il tema ancora più pressante. Il cavallo beve, per usare la vecchia metafora sulla ripresa economica degli anni Ottanta, ma i fantini sono comunque insoddisfatti, e vogliono di più. Cosa vogliono? Cosa pretendono le regioni vandeane italiane – o francesi, o spagnole, o tedesche – che guardano, nonostante lo status di area privilegiata del mondo, a una destra peronista e sovranista? Cosa possono ottenere di più da una cultura che nasce ancora più statalista e dirigista di quella della sinistra italiana, qual è la vecchia destra nostalgica e neofascista?
L’unica risposta che sembra congiungere le spinte secessioniste – dagli Stati trumpisti americani, alle tentazioni isolazioniste che tagliano in due realtà come la Gran Bretagna della Brexit, o il lepenismo francese e la svolta conservatrice spagnola – è la pretesa di uno statalismo assistenziale ma non interventista. Lo Stato deve solo fare massa critica nella tutela contro le minacce competitive della globalizzazione, ma non intromettersi nella gestione dell’economia, micro e macro.
Proprio l’assenza di una variabile conflittuale, che la sinistra ha animato nel secolo scorso, rende superflua una visione moderata e consociativa, e spinge le imprese sui tradizionali “spiriti animali” di un capitalismo senza contegno o ritegno. Lo scontro oggi, in Occidente, è fra due destre: quella geo-politica e imperiale del capitalismo atlantico, e quella bottegaia e adattiva del mercato in subappalto europeo. In questa chiave, la radicalizzazione delle aree più moderate e centriste, che avevano sempre dialogato a sinistra, rende la politica un’asta di assicurazioni a favore dei proprietari senza obblighi.
La metafora dei nuovi sistemi tecnologici potrebbe spiegare ancora meglio il vicolo cieco in cui rischia di chiudersi un capitalismo senza avversari. I processi di automazione prevedono, strutturalmente, un’intelaiatura relazionale di permanente contesa e contrasto, per dare forma con sicurezza ed efficienza alle opportunità delle nuove risorse digitali, riducendo al minimo i rischi. La riduzione del lavoro, la pressione e le interferenze dei sistemi intelligenti, la potenza di profilazione, sono modelli che devono essere socialmente negoziati per non diventare autoreferenziali, e dunque arrivare alla cosiddetta singolarità tecnologica, in cui l’algoritmo non risponde neppure al proprietario.
Il capitalismo descritto dal governatore sembra un mercato ai limiti di una singolarità degli scambi, in cui produzione e consumo sfuggono a ogni senso comune. Visco, nel suo passo d’addio, avverte che una politica senza negoziato sociale rischia il declino oscurantista e isolazionista. E parlando a nuora perché suocera intenda, spiega che in fondo a questa strada c’è la recessione, o, ancora oltre, la guerra. Ma oggi sia la suocera sia la nuora stanno serenamente a destra.