La grande corsa sta per iniziare, anzi no, è già iniziata. Tra sedici mesi, nel novembre 2024, ci saranno le nuove elezioni presidenziali (sembra solo ieri quando ci sono state quelle precedenti!), i candidati si stanno allineando alla linea di partenza e le primarie – quella kermesse elettorale e mediatica che dura quasi un anno – stanno per avere formalmente inizio. A proposito di primarie, c’è una novità. Il Partito democratico, a febbraio, ha stabilito che quest’anno le consultazioni non inizieranno più nello Stato dell’Iowa, come avviene da decenni, ma nella Carolina del Sud. Il problema era che l’Iowa è poco rappresentativo per popolazione ed economia, ma finiva con l’esercitare un’influenza fuori misura sulle successive primarie.
Nelle elezioni presidenziali americane i candidati sono spesso una decina, ma solo due sono quelli che contano perché raccolgono la quasi totalità dei voti, il democratico e il repubblicano. Al momento i frontrunners, quelli in testa a tutti, sono due: Joe Biden per i democratici, e Donald Trump per i repubblicani. Il primo è il presidente in carica, e di solito quando il presidente si ricandida per la seconda (e ultima) volta chi aspira a prendere il suo posto aspetta il turno successivo. Il secondo è assai noto: è stato presidente prima dell’attuale, non ha mai accettato la sconfitta, e con i suoi modi arroganti e padronali domina tuttora il suo partito.
Ma c’è un paradosso. Il fatto è che non solo entrambi i frontrunners nei sondaggi raccolgono poco più del 40% del favore popolare, ma in ciascun partito ci sono forti dubbi sulla capacità dei rispettivi candidati di essere eletti. Per quel che riguarda Biden, la preoccupazione principale è legata all’età, dal momento che avrebbe quasi 90 anni alla fine del secondo mandato, e già adesso di tanto in tanto mostra preoccupanti segni di invecchiamento mentale. Ci sono poi considerazioni di natura politica. Le scorse elezioni, in campo democratico, sono state contrassegnate da una vivace battaglia tra l’ala centrista del partito, impersonata da Biden, e quella di sinistra capeggiata da Bernie Sanders. Com’è noto, nelle primarie vinse l’ala centrista, ma quella progressista dopo quattro anni di presidenza Biden – e di promesse solo in parte realizzate – ha molti motivi di essere scontenta: il che potrebbe incidere negativamente sull’affluenza al voto, soprattutto da parte delle minoranze.
Quanto a Trump, sembrava che dopo le elezioni di midterm del 2022, in cui molti dei candidati da lui sostenuti sono stati sconfitti, la sua presa sul partito fosse diminuita. E invece l’uomo è rimbalzato sulla scena politica più arrogante e vendicativo che mai, evidentemente forte del fatto che una parte dell’elettorato repubblicano – una parte minoritaria ma la più attiva e rumorosa, il popolo MAGA (Make America Great Again) – lo sostiene con un fanatismo che non ammette incertezze. In realtà, l’incertezza è nelle cose perché se i processi penali contro di lui dovessero andare male (ce ne sono almeno quattro importanti), è possibile che una parte dell’elettorato repubblicano decida di non votarlo, non tutti e neppure una maggioranza, ma quanto basta per convincere i finanziatori miliardari del partito che Trump ha scarse possibilità di vincere, e quindi non vale la pena sostenerlo.
Ma intanto l’annuncio formale da parte di Trump della sua candidatura dalla pacchiana residenza di Mar-a-Lago, con l’accompagnamento di fulmini e saette nei confronti non solo dei democratici ma dei possibili “traditori” nel suo partito, ha spento molte delle velleità che si erano manifestate in campo repubblicano dopo la mancata vittoria del 2022. Tra i sei o sette che si erano fatti avanti, tre erano quelli con sufficiente autorevolezza e visibilità nazionale: Mike Pence, l’ex vicepresidente che aveva assecondato il proprio capo per quattro anni senza mai fiatare, ma si era rifiutato di seguirlo (evidentemente temendo conseguenze giudiziarie per se stesso) quando gli aveva chiesto di non proclamare la vittoria di Biden di fronte al Congresso riunito; Nikki Haley, già governatrice della Carolina del Sud e poi nominata da Trump ambasciatrice alle Nazioni Unite, che a febbraio è stata la prima ad annunciare la propria candidatura, suscitando le ire del capo. E infine, tra i “grandi” aspiranti, Ron DeSantis, attuale governatore della Florida, che è entrato formalmente in corsa pochi giorni fa con una presentazione via Twitter funestata da imbarazzanti inconvenienti tecnici. Immediatamente Trump ha riversato sul neocandidato la sua furia, attraverso una serie di epiteti tra l’offensivo e il derisorio: “Rob” (invece di Ron) con possibile allusione a ruberie varie, “piccola d” con riferimento alla statura e al carattere dell’uomo, desanctimonious, a indicare una certa ipocrisia.
Il fatto è che tutti questi potenziali aspiranti alla presidenza hanno un’unica colpa: quella di entrare in concorrenza con Trump. Per il resto, sono dei cloni quasi perfetti dell’ex presidente. Tutti e tre lo hanno sostenuto in ogni sua follia, lo hanno scusato per ogni eccesso, hanno sposato le sue tesi complottiste e lo hanno difeso nei processi di impeachment. Sono tutti e tre dei convinti sostenitori delle politiche della destra più reazionaria su tutti i temi classici ormai da decenni (immigrazione, aborto, armi, pena di morte), e su quelli nuovi emersi in questi anni: avversione per i diritti civili dei transgender e per tutto ciò che oggi viene chiamata politica woke, cioè di attenzione critica alle ingiustizie sociali, di genere e di razza.
Ron DeSantis, tra questi, è colui che ha le maggiori possibilità di contrastare il Capo e per questo viene da lui attaccato con particolare violenza e scherno. È giovane (44 anni), belloccio, famiglia di ceto medio di origini italiane, ha frequentato le migliori università private (Yale e Harvard). Da giovane avvocato della marina militare venne mandato a Guantánamo, dove era in servizio quando nel 2006 avvenne il presunto suicidio di tre detenuti, che fu invece probabilmente un omicidio da parte delle guardie carcerarie. Non è chiaro che ruolo abbia avuto in quella tragica vicenda, ma certamente – in quanto avvocato d’ufficio della difesa, e quindi teoricamente dalla parte dei detenuti – non fece nulla né per prevenire né per indagare ciò che realmente era successo. La sua ascesa in politica è di una decina di anni fa: deputato nel 2012, senatore nel 2016, è stato eletto governatore della Florida una prima volta nel 2018, con un esile margine, e poi rieletto alla grande nel 2022.
La Florida è tradizionalmente uno swing State, in cui la forza elettorale dei due partiti oscilla dall’uno all’altro a ogni tornata elettorale. Incurante di ciò, DeSantis appena eletto ha fatto approvare una serie di provvedimenti cari alla destra più radicale. La Florida aveva già una legislazione restrittiva sull’aborto; lui ha fatto ridurre il tempo in cui una donna può abortire da quindici a sei settimane; sull’immigrazione ha preso alcuni provvedimenti ad effetto, come quello di caricare un centinaio di immigrati su un aereo e scaricarli a Martha’s Vineyard, nel democratico Massachusetts. Ha licenziato giudici, sceriffi, provveditori scolastici e altri funzionari pubblici rei di non volere seguire le sue politiche omofobiche; ha infine annunciato di volere riprendere le esecuzioni capitali rendendo la sentenza eseguibile anche in assenza dell’unanimità della giuria.
Insomma, un reazionario della più bell’acqua, con tutte le carte in regola per piacere all’elettorato più radicalmente di destra. Se riuscirà a conquistare la nomination repubblicana, sconfiggendo il suo mentore politico Trump, lo sapremo però solo a partire dal 22 gennaio 2024, quando si terranno i primi caucus dello Iowa. E già, perché tra i paradossi americani c’è anche il fatto che le primarie dei due partiti si svolgono nello stesso Stato in tempi diversi.