Non si ferma il vento di destra che soffia sull’Italia e sull’Europa. Pensavamo di cavarcela ai ballottaggi del 28 e 29 maggio grazie a un sussulto democratico – non nel senso del Pd, ma in quello più ampio, da parte dell’elettorato, di porre un freno al governo Meloni. Non è andata così. La stragrande maggioranza dei comuni chiamati per la seconda volta al voto avrà un’amministrazione di destra, anche in città in cui, fino a non troppo tempo fa, “destra” era una parola impronunciabile. Se in un passato recente potevamo prendercela con Renzi e con la sfiducia che aveva diffuso a piene mani, ora non possiamo considerare responsabile Schlein, che ha ereditato un Pd al limite del collasso. Però hanno un fondamento le critiche che si possono muovere alla nuova segretaria, sintetizzabili in una soltanto: quella di non essere sufficientemente chiara sulla linea politica complessiva che intende seguire. Ora, dalle prime dichiarazioni successive alla sconfitta, sembra che sia venuto fuori infine il problema principale (non l’unico, certamente) che è quello di non avere neppure ancora cominciato a mettere mano a un sistema stabile di alleanze e a un programma comune tra le forze politiche di opposizione.
Ma a farci soffrire di più è quanto sta accadendo in Spagna. Lì un governo che ha fatto cose egregie – aumento del salario minimo (che in Spagna c’è), contrasto efficace alla precarizzazione del lavoro, politica della casa – rischia moltissimo alle prossime elezioni generali, anticipate al 23 luglio dopo una sonora batosta alle amministrative in alcune città chiave, come Madrid, Siviglia, Valencia, Barcellona (dove però hanno vinto gli indipendentisti catalani). Il premier socialista Sánchez ha fatto bene a tagliare corto e a dimettersi – di una certa risolutezza di carattere ha dato del resto prova in altre occasioni –, e a porre la sinistra, sia i partiti della coalizione di governo sia l’elettorato, dinanzi alle proprie responsabilità: volete che la Spagna sia governata dai conservatori del Partito popolare insieme con la destra estrema degli amici di Giorgia Meloni?
Non ci sono altre vie se non quella dell’unità e, insieme, della mobilitazione. L’anno prossimo, con le elezioni per il rinnovo del parlamento europeo, rischiamo di svegliarci in un’Europa tutta spostata a destra. E ciò anche per la posizione che stanno prendendo i centristi popolari, sempre più orientati ad allearsi con gli ultraconservatori. Bisognerà, a sinistra, cercare un’intesa anche con i liberali di Renew Europe: il che poi significa Macron in Francia e, in Italia, Carlo Calenda. Ciò può sembrare a tutta prima contraddittorio se si dice che ci vuole unità a sinistra. Ma i numeri sono i numeri. E se, nei singoli Paesi, vanno rotti i ponti con il centrismo liberale, ciò non vuol dire che a livello europeo non si debbano cercare convergenze tra socialdemocratici e liberali, oltre che naturalmente con i verdi, per fugare la possibilità di una maggioranza di destra-centro nell’Unione.
Certo, i problemi della sinistra sono oggi soprattutto quelli della sua rappresentanza sociale (come segnala Michele Mezza con i suoi interventi su “terzogiornale”) che non è, non può più essere, quella del passato. Ma siamo nel pieno di una transizione che dura da tempo e che non si sa, in verità, a cosa possa approdare. Fare proposte per sciogliere la questione del corporativismo insito nelle nuove forme di “società dei produttori” (ne abbiamo un esempio, da decenni, nel Nord del nostro Paese, con un innaturale blocco di interessi tra “datori di lavoro” e loro dipendenti) è senz’altro necessario; ma neppure bisogna tralasciare la manovra politica, la politique politicienne tattica, che può dare qualche frutto nell’immediato.
Sulla guerra, poi, sarebbe indispensabile arrivare a dire con chiarezza che così non può continuare. Non si può lasciare soltanto al Vaticano il compito di cercare delle soluzioni. La sinistra, qualsiasi sinistra, dovrebbe sapere che le guerre spostano comunque a destra gli equilibri politici. Come l’inflazione, che almeno in parte ne è la conseguenza, dovrebbe spingere le organizzazioni sindacali a porre con forza la questione salariale (e in altri Paesi di Europa, non in Italia, ciò sta avvenendo), così la sinistra politica dovrebbe assumere una posizione di contrarietà alla guerra, tenendo conto della situazione reale ma avanzando qualche proposta affinché si apra uno spiraglio di pace.