La corsa ad arruolare Dante o Manzoni come testimonial di un radicato e autorevole pensiero conservatore, da parte della destra con la fiamma, mentre si fa bottino di ogni posizione negli apparati culturali, tradisce un complesso di strutturale inferiorità, oltre che un confine non valicabile fra una visione apertamente reazionaria e oscurantista, e invece l’articolazione di concezioni realmente conservatrici, che spesso si trovano a convivere con ambiziose e furenti pulsioni innovative. Le congiunture elettorali a livello europeo – dalla Turchia alla Spagna – indicano che l’ondata di destra non è uno sbandamento, tanto meno un’occasionale reazione a insoddisfacenti governi di sinistra.
Siamo in un passaggio epocale, in cui la trasformazione dell’intero sistema produttivo e comunicativo – quello che Manuel Castells chiama “informazionalismo”, ossia una creazione di valore mediante uno scambio individuale di simboli o segni –, ha del tutto divelto la piattaforma culturale su cui poggiava una certa egemonia di sinistra, in cui la contraddizione capitale/lavoro dava senso e identità a una pluralità di interpretazioni esistenziali, lasciando quella parte politica senza strumenti e capacità di interpretare i processi contemporanei.
Questa transizione da una società di massa a una in cui il pulviscolo sociale si muove a sciami, per dirla con Byung-chul Han, sembra oggi meglio interpretata da culture politiche che attraverso l’ambizione proprietaria sanno parlare ai singoli uniformandone immaginario e ambizioni. Una realtà che impone a questa parte emergente responsabilità politiche e – inevitabilmente nella nuova società informazionalista – il carico di essere matrice e non più reagente di valori e linguaggi.
Da qui una spinta vitalistica che mira a dare spessore culturale al predominio elettorale. Ma perché la destra, per fare questo, non cerca quei contenuti e personaggi che hanno declinato in chiave moderna, se non proprio profetica, una visione conservatrice, con la premonizione di trasformazioni che oggi vediamo compiersi? Insomma, perché non fa la fatica di confrontarsi con un pensiero alto conservatore, che non ha avuto paura di contaminarsi con modelli e comportamenti rivoluzionari, invece di cercare, propagandisticamente, facili totem a cui tentare di legare il proprio potere?
Una certa sensibilità, in questo gorgo, non manca se, dinanzi a quanto sta accadendo nella mutazione dell’idea stessa di sapere e di lavoro, ci si tiene lontani da vecchi arnesi della destra europea: da La Rochelle a Evola, tanto per citare i poster delle sezioni missine di non molto tempo fa. Ma comunque si rimane a mezz’aria, senza avviare una riflessione seria su cosa sia oggi una visione conservatrice di governo del mondo.
Sono domande che possono sembrare strumentalmente polemiche, soprattutto perché vengono da sinistra, ma che esprimono un imbarazzo serio. Invece di rifarsi a improbabili intellettuali contemporanei da incerte capigliature, che di mestiere fanno gli intellettuali di destra sordomuti, perché non usare potenti pensatori che hanno dato spessore e seduzione a un pensiero conservatore?
Penso a due nomi, completamente diversi fra loro, per momento storico in cui sono vissuti e struttura epistemologica della loro elaborazione, che si dichiaravano apertamente conservatori, come Giordano Bruno e Marshall McLuhan. Due indiscutibili geni dell’Occidente, che hanno dato forma a snodi fondamentali del pensiero moderno, facendo creativamente convivere una vivacità d’ingegno e un’irrequietezza di elaborazione con una propria identificazione con la conservazione della gerarchia di potere con cui convivevano.
Bruno, che viene ascritto alle aree più audaci del pensiero laico e rivoluzionario, più volte afferma nelle sue opere che “il mondo sta bene come sta”, pur sovvertendo credenze e inutili dogmi, con la sua celeberrima affermazione per cui “nell’infinito spazio possiamo definire centro nessun punto, o tutti i punti: per questo lo definiamo sfera il cui centro è ovunque”. Una lucidissima bomba filosofica, che frantuma certo accademie e incrostazioni ideologiche, disarmando i primati di papi e imperatori, ma che assicura alle gerarchie sostanziali, quelle del denaro e delle decisioni, un futuro dominio sul nuovo secolo del calcolo che si apriva proprio nell’anno del suo sacrificio a Campo de’ Fiori, a Roma, il 17 febbraio del 1600. Da quel momento la cosmogonia orizzontale, che aveva disegnato il monaco, permetteva alle nuove élite intellettuali – da Galilei a Pascal, a Leibniz, a Cartesio, fino a Copernico – di vedere il mondo, come scrive Aldo Masullo nel suo GiordanoBruno maestro di anarchia, “non più come idea ma come problema”. Un problema che viene risolto dal determinismo matematico, che affida poteri e decisioni a chi può organizzare la potenza di calcolo e lo scientismo come linguaggio della convivenza umana.
Da questa radice nasce quel progresso materiale che la sinistra tenta di integrare nel suo “sol dell’avvenire”, e che invece il capitalismo programma come reale ordine mondiale, in cui ogni conquista diventa funzionale a un mondo, appunto, che sta bene come sta. Un altro grande conservatore mascherato, come Tocqueville, fotografa proprio quello snodo storico, fra il XVII e il XVIII secolo, in cui affiora il dinamismo individuale e privato che scava nella società i solchi lungo i quali scorre il progresso: “Mentre i sovrani si rovinano nelle grandi imprese e i nobili si esauriscono nelle guerre private, i non nobili si arricchiscono col commercio. Il denaro comincia a far sentire la sua influenza negli affari dello Stato. Il commercio diviene fonte di potenza e i finanzieri un potere politico disprezzato ma adulato. A poco a poco il sapere si diffonde: il gusto della letteratura e delle arti si risveglia: la genialità diviene un elemento di successo, la scienza un mezzo di governo, l’intelligenza una forza sociale”. Una potente descrizione che si oppone concretamente alla talpa marxiana che scava sotto i nostri piedi mediante la lotta di classe e il conflitto sociale. Allora perché la destra non si impossessa di questa eversione conservatrice e non ne assorbe metodo e visione?
Lo stesso si può dire, tre secoli dopo, di Marshall McLuhan. Il profeta della comunicazione che solo una pigra superficialità iscrive in un campo culturale progressista. Il geniale filosofo era invece un conservatore moderno, che spostava continuamente il baricentro del mondo semiologico che ci rivelava, dalla creatività dei contenuti alla proprietà degli apparati. Come Vannevar Bush, di cui era discepolo, McLuhan spiega che proprio smaterializzando il lavoro manifatturiero, sostituendo alla catena di montaggio la centralità dei segni e dei simboli, l’Occidente avrebbe prevalso sulla pressione del sovietismo asiatico. “Il messaggio di un medium o di una tecnologia è nel mutamento delle proporzioni di ritmo e di schemi che introduce nei rapporti umani” – scrive nel suo Gli strumenti del comunicare, del 1964. La straordinaria stagione del ’68, con le sue avvolgenti e pervasive ondate sociali, aveva forzato questa visione, intendendo per “rapporti umani” i marxiani “rapporti di produzione”. Ma McLuhan intendeva esattamente l’opposto, ossia la trasposizione sociale di quell’intimismo della comunicazione con cui il nuovo capitalismo semantico sostituiva la contraddizione capitale /lavoro. Perché la destra non assume questo pensiero come straordinaria lente per leggere e guidare la mediamorfosi in atto, dando un imprinting conservatore alle dinamiche tecnologiche?
In realtà, lo stesso è accaduto a un filone culturale nefasto ma certo non residuale e gretto, come sono stati i neocons americani, non a caso in maggioranza di lontane esperienze di movimentismo trotskista, che pure sono stati seguiti a destra, ma poi non accettati, come linguaggio e modello politico. Insomma, perché tutto quello che si è mosso, fuori dalla truce tradizione fascista, non viene elaborato a destra?
Ci sarebbe da chiedersi quali siano la differenza e la distanza fra un ragionamento conservatore, nella disputa filosofica, e invece un arroccamento reazionario nella difesa di interessi dominanti. Infatti il fil rouge che congiunge quelle visioni del mondo, che abbiamo prima collegato a Bruno o a McLuhan, spiazzano e destabilizzano la destra più della stessa sinistra.
La matrice di questi fenomeni è comunque un’ingegneria sociale che – per quanto fondamentalmente conservatrice – gioca sulla mobilità degli equilibri e degli interessi, non assicurando rendite di posizione, come invece i fascismi europei fra le due guerre facevano. Da Bruno a Mc Luhan, fino agli stessi bellicisti neocons, non era la proprietà ereditata, faro indiscusso di una destra oscurantista e padronale, ad assicurare la gerarchia sociale, ma una capacità di elaborare e sperimentare forme di produzione inedita, e modelli sociali instabili, quali quelli basati sulla smaterializzazione delle risorse e della ricchezza che mutano la gerarchia di comando.
La stessa intelligenza artificiale, che rimane al momento monopolio di pochi proprietari, solo per il fatto di essere un ambiente aperto e decentrato, che rimette in campo una moltitudine di incontrollabili ricercatori viene vista con sospetto; cosi come la globalizzazione, che pure ha aperto le porte dei mercati a una miriade di aziende e imprenditori, è sofferta come fenomeno rischioso da cui difendersi. Dove non ci sono dei re, regnano gli spettri – scriveva il poeta romantico e crepuscolare Novalis. Se la destra rimane quella dei re, per quanto possa essere ancora sfavorevole la congiuntura elettorale, non dovremmo avere timore di una vera egemonia reazionaria. Gli spettri del calcolo saranno sempre ingovernati e ingovernabili. Ammesso che la sinistra sappia parlar loro.