Mentre una limacciosa e placida bonaccia avvolge l’ennesima grande bouffe in viale Mazzini, la conduttrice di “Mezz’ora in +”, uno dei pochi spazi nei palinsesti della Rai in cui la politica estera era comprensibile e non pura elencazione di nomi di ministri o generali, spariglia le carte, rinunciando al suo programma per l’anno prossimo. Una scelta che radicalizza lo scontro, riducendo sotto le soglie di regime lo spazio per le opposizioni nella programmazione del servizio pubblico, rendendo ancora più imbarazzante il mercimonio con cui i 5 Stelle di Conte hanno appoggiato l’assalto alla diligenza del governo Meloni. Due piccioni con una fava. Si riduce ogni spazio di consociativismo in viale Mazzini, commissariando di fatto anche il balbettante Pd di Schlein, che non è ancora riuscito a esprimere una risposta piena all’attacco della destra, e si alza l’asticella di un possibile accordo elettorale con i grillini, costringendo i democratici a una messa a punto politica, già a poche settimane dall’insediamento della segreteria uscita dalle primarie.
Annunziata sembra non solo candidarsi a un posto di capolista per le europee, ma addirittura a contendere, o almeno condizionare direttamente, la leadership della sua amica Schlein. Al centro della contesa, per ora, proprio il sistema informativo e il corpaccione di una Rai che sta perdendo identità e persino utilità. L’ondata delle nomine alla testa dei telegiornali, con il grigiore di direttori tutti riciclati o riciclabili quasi in ogni stagione, fa intendere come questo governo, che pure dichiara di volere conquistare uno spessore culturale tale da contrapporsi alla pari alla mitica egemonia della sinistra, non si trova in tasca alcuna ricetta per rivitalizzare il cavallo di Messina che continua a rantolare dinanzi all’ingresso del palazzo di viale Mazzini.
Tutti i nuovi titolari delle testate sono di marca dorotea, molto affini all’amministratore delegato pro tempore Sergio: esperti naviganti sotto costa, pronti a ogni sfumatura del grigio ministeriale, oggi con una chiara intonazione all’antracite, in ossequio all’inquilina di Palazzo Chigi. Ma più che la sottomissione al governo, che non è certo una novità, colpisce la rinuncia a ogni capacità di sintonizzazione con i processi di riorganizzazione, diciamo quella mediamorfosi, che sta attraversando da tempo il mercato multimediale.
La fabbrica delle news della Rai, Saxa Rubra, rimane fondamentalmente un’infrastruttura logora nell’organizzazione; rimane la vecchia tripartizione, inadeguata nelle tecnologie e sguarnita di ogni competenza contemporanea. Proprio la guerra in Ucraina ha mostrato come l’informazione sia diventata un capitolo della logistica militare, dove direttamente gli stakeholders di un evento, nel caso terribile i militari, producono e distribuiscono informazione e conducono i combattimenti con strumenti e linguaggi tipici del giornalismo: dai droni, ai satelliti, al GPS, agli smartphone, ai dati di profilazione. In questo quadro, la macchina editoriale diventa un sofisticato sistema d’intelligence, che raccoglie, elabora e profila grandi quantità di dati, riconoscendone la matrice e l’origine, in modo da poter comprendere i limiti della manipolazione. Un processo in cui la rete non è più vetrina, come ancora in Rai è interpretata, delle notizie che si producono in analogico, ma vera fabbrica di ogni linguaggio. Fondamentale, in questa logica, è la capacità di raccogliere e leggere i dati di flusso. Non gli ormai banali economics di diffusione, in cui si ricostruisce la geografia dell’audience, ma la tipicità di ogni singolo utente che interagisce con la redazione, usando e integrando ogni contenuto prodotto dai giornalisti.
Saxa Rubra è ancora un gigantesco supermercato di artigiani che lavorano le proprie notizie in parallelo, senza economie di scala e senza logiche sinergiche o di convergenza. Ognuno rimane padrone a casa propria. In questa fiera dell’antiquariato irrompe l’intelligenza artificiale che spinge innanzitutto gli utenti, gli ascoltatori, a scavalcare le redazioni, mettendosi in proprio.
Da anni stiamo assistendo a un penoso gioco di rimpiattino, in cui direttori illuminati, come Dall’Orto o Verdelli, arrivano, constatano la follia di una sovrapposizione di costosi e improduttivi doppioni, e provano a cimentarsi in una elementare ottimizzazione, facendo quello che nel mondo si fa da almeno vent’anni: si produce dove costa meno, in digitale, e si distribuisce dove rende di più sui canali tv, avendo alle spalle un motore produttivo uniforme che permette di differenziare i target, modificando formati e linguaggi di un medesimo trattamento. Questa banale ambizione è stata sempre stroncata dal combinato disposto di cacicchi politici, che temevano di perdere il vicedirettore di riferimento, e lobby giornalistiche che temevano di non diventare il vicedirettore di riferimento.
In questo gioco del “tanto peggio tanto meglio”un ruolo di punta ha avuto la sinistra del cavallo, che con la scusa del pluralismo ha presidiato e difeso ogni ridotto di appartenenza, assicurando lunga vita alla tripartizione, e condannando l’informazione Rai alla marginalità nell’innovazione. Le ultime riforme di struttura risalgono al 1993, con l’unificazione dei giornali-radio, poi rientrata in un’istintiva nuova parcellizzazione della miseria, e nel 1999, con il progetto digitale di “RaiNews24”, il primo canale europeo che andava in simulcast, analogico e web, poi rapidamente riportato nel solco di una caricatura di striscia di normali edizioni di tg.
Ora siamo al passo finale: testate televisive e della carta stampata sono tutte protese al digital first, unificando il ciclo produttivo in un unico clock di 24 ore, in cui occasionalmente si sceglie quanto possa andare in pagina o in onda. Ma questa svolta chi la gestisce in Rai? Chi ne ha interesse e ambizione? I giornalisti sono ormai frantumati in tribù locali che coincidono con gli ordini di servizio delle singole redazioni. I dirigenti sono i capi tribù, che difendono i propri budget. I tecnici si trascinano nei meandri degli appalti e dell’outsourcing. La politica strizza lo straccio bagnato per ricavare ancora rigagnoli di fedeltà.
In questo presepe arriva al Tg1 un fiancheggiatore di Fratelli d’Italia, come Gianmarco Chiocci, già direttore del “Tempo” e dell’agenzia ADN Kronos, che negli anni Novanta considerava già ardita la mail. Al Tg2 il sussiegoso Antonio Preziosi, di cui nessuno si è mai accorto del suo girovagare nei corridoi dell’azienda. Al Tg3 rimane il rassicurante Orfeo, che prolunga a sinistra la striscia dorotea. Mentre alla radio si compensano gli insoddisfatti o i trombati delle testate maggiori, senza l’ombra di una strategia o mandato aziendale. Un quadro pre-fallimentare, che sembra annunciare una prossima involuzione organizzativa e strutturale del sistema Rai, in cui il canone rimane l’unico pezzo pregiato che fa gola ai contendenti esterni.
Per questo le dimissioni di Annunziata, con il backstage politico che l’accompagna, riesce persino a essere notizia di apertura, insieme al tenero commento del responsabile informazione del Pd, Sandro Ruotolo: sacrificate le donne e il pluralismo. Come dire che in Ucraina si stanno calpestando i prati.