Come avviene in molti gialli mediocri, i colpi di scena non servono a dare indizi sul colpevole, ma hanno la funzione di riaccendere l’interesse del lettore, alimentando una macchina narrativa altrimenti farraginosa e noiosa. Analogamente, la clamorosa testimonianza in aula di Gianni Mion, nel corso del processo per il crollo del ponte Morandi, ha avuto l’indubbio merito di riportare l’attenzione dell’opinione pubblica su una vicenda che un lento e spossante iter processuale stava per molti versi anestetizzando, facendone quasi dimenticare l’enorme gravità.
Gianni Mion non è un pesce piccolo, è lo storico braccio destro della famiglia Benetton, ex amministratore delegato di Edizione, cuore del piccolo impero familiare, un ruolo che dura sin dai tempi felici in cui il gruppo si occupava di abbigliamento, non di autostrade. Anche all’epoca del crollo, Mion era una sorta di supervisore che si occupava di coordinare tra loro le molteplici attività dei Benetton, diventate sempre più “diversificate”. Nella sua deposizione ha riconosciuto di aver sentito parlare di rischio-ponte fin dal 2010, e ha detto a chiare lettere quanto si era finora già abbondantemente intuito: che le responsabilità di quanto avvenuto sono responsabilità personali, e che la “tragedia” era ampiamente annunciata ed evitabile, anche se il quadro da lui tracciato sotto il profilo tecnico e umano risulta ancora più stupefacente della più pessimistica ricostruzione dei fatti.
In un’intercettazione Mion parlava così del ponte Morandi e delle sue inquietudini al riguardo: “Quando io ho chiesto all’ingegner Castellucci e ai suoi dirigenti chi certificasse la stabilità e l’agibilità di questo ponte, mi è stato detto: ce lo autocertifichiamo”. I dubbi si erano poi trasformati in certezze durante una riunione di vertice tenutasi nel 2010, in cui erano presenti tutti i principali consiglieri, gli amministratori delegati e lo stesso Gilberto Benetton: “Noi sapevamo che il ponte aveva un problema di progettazione”.
D’altra parte, non erano i soli a saperlo, il povero ingegner Morandi, ormai anziano, aveva più volte segnalato i problemi di una realizzazione ai suoi tempi audace nella concezione, ma per molti versi sperimentale. Un altro teste ascoltato durante il processo, Emanuele Codacci Pisanelli, ex collaboratore di Riccardo Morandi, e successivamente consulente di Autostrade, ha dichiarato che il progettista, già nel 1981, aveva segnalato i difetti del pilone 9, poi crollato. Durante un sopralluogo i due avevano visto da vicino i tiranti e i cavi, ed era risultato subito chiaro che il loro stato era inadatto ai volumi di traffico cui già allora era sottoposto il ponte.
Insomma, che il ponte fosse malato, che ci fossero stati probabilmente buchi nella progettazione e manchevolezze nella realizzazione, che fosse sovraccarico e potesse crollare, era cosa nota da un pezzo, e non solo agli specialisti del settore. Perché non si fece nulla? La risposta è banale: il sistema di controllo era farlocco e la manutenzione era onerosa. Nel 2016 Antonio Brencich, docente di costruzioni in cemento armato presso la facoltà di Ingegneria dell’Università di Genova, in una intervista all’emittente “Primocanale”, aveva detto: “Quel ponte è sbagliato. Prima o poi dovrà essere sostituito. Non so quando. Ma ci sarà un momento in cui il costo della manutenzione sarà superiore a quello della sostituzione. Alla fine degli anni Novanta i costi erano già oltre l’80% del costo della costruzione”. Il quadro è chiaro: il ponte andava chiuso e sottoposto a energica e costosa ristrutturazione, o addirittura abbattuto e ricostruito. Il giallo non è dunque un giallo, si tratta ormai unicamente di ricostruire le catene di comando delle scelte e delle non-decisioni che hanno condotto al disastro, individuando le responsabilità dei singoli.
Ma nella testimonianza di Mion, c’è anche altro, che va oltre la denuncia delle omissioni, dei servilismi, dei silenzi. Dalle sue parole emerge l’inettitudine dei proprietari, l’avidità gretta, il cinismo dei responsabili tecnici, l’assenza delle istituzioni, un universo di miseria umana da fare impallidire i personaggi delle Anime morte di Gogol. L’ex grand commis dei Benetton, ora pensionato ma in passato potentissimo, esita, vacilla, ammette davanti ai giudici di far lui stesso parte di una schiera di personaggi timorosi di perdere il posto, di ominicchi abbarbicati alla loro posizione, di yesmen ignavi e ottusi.
E al tempo stesso la sua deposizione tratteggia un quadro a tinte fosche della imprenditoria italiana, in cui, in barba a ogni “etica protestante”, remore e scrupoli vengono cancellati sull’altare del profitto. Un nichilismo capitalistico ispirato a una sorta di fiat pecunia pereat mundus. E qui non si assiste al riemergere degli “spiriti animali” del capitalismo, celebrati dai tea clubs iperliberisti, ma al palesarsi di una sorta di cupio dissolvi, alla rappresentazione icastica in forma di tragedia di un Paese sempre più fondato sulla rendita, in cui languiscono le attività produttive, e spremere quattrini pubblici diviene un obiettivo di molta imprenditoria privata.
Come scrivemmo in un volumetto collettivo, curato da Emanuele Piccardo, il crollo del ponte è anche il crollo della modernità, un evento che segna lo sprofondamento di un modello economico e di una cultura imprenditoriale e politica. Il vero disastro precede dunque l’evento: è il disastro umano, tecnico e culturale che lo rende possibile. Più che un giallo, allora, il genere letterario cui appartiene il processo che si sta celebrando è forse il dramma shakespeariano, in cui la morte del protagonista rappresenta l’azzeramento totale di tutte le possibilità, chiude un ciclo di esistenza, e ha sovente una valenza morale che allude all’aprirsi di un’epoca nuova. Chi ha ucciso il ponte Morandi, ha commesso un crimine, ma ha anche ucciso il sonno colpevole che gravava su un intero, torbido periodo storico che abbiamo appena attraversato. Dalle macerie del ponte, e dallo svolgimento del giudizio in corso, ci giunge dunque chiaro un monito: la gestione di infrastrutture pubbliche essenziali difficilmente può essere demandata a privati predaci e inadeguati. Chissà chi saprà ascoltarlo.