Diciamoci la verità: il Salone del libro di Torino è una chiassata in cui contano meno i buoni libri che il marketing. La sua logica complessiva è la stessa della trasformazione delle grandi librerie (delle Feltrinelli in specie) in luoghi di incontro e di ristoro, in cui più importante è il gadget che la lettura. Le presentazioni sono eventi pubblicitari, dove non è tanto centrale il singolo volume ma chi presenta: se il presentato e/o il presentatore siano dei personaggi televisivi, per dirne una. Solo piuttosto raramente l’aria di festa (ma il libro è un oggetto “festoso”?) è rotta dall’episodio di una controversia come quello verificatosi sabato 20 maggio, quando un gruppo di ragazze e ragazzi appartenenti a movimenti alternativi ha impedito la performance di una ministra già radicale e ora postfascista. Un esempio, a essere sinceri, di ciò che dovrebbe accadere più spesso nei confronti dei rappresentanti del governo in carica.
Il direttore (tra l’altro uscente) del Salone, Nicola Lagioia, chiamato in causa, si è comportato dignitosamente: dopo avere cercato di “far dialogare” i contestatori, se n’è andato, sotto le contumelie dei presentatori, affermando che lui non poteva certo fungere da servizio d’ordine. E ci mancherebbe! C’è da dire anche qualcosa di più: un episodio di contestazione non è affatto un dialogo, è una rottura, piccola o grande che sia, dell’“ordine del discorso” – si potrebbe dire –, in cui chi prende la parola rumorosamente non vuole avere nulla a che fare con coloro di cui interrompe l’espressione. Scarsa democrazia, questa? Niente affatto: si tratta di una visione conflittuale della democrazia, che ne sospende il consueto trantran, nel quale, come sappiamo, chi ha più “potenza di fuoco” finisce con l’avere una posizione dominante. Rumoreggiare il proprio dissenso, anziché argomentarlo in maniera dialogica, fa parte di una concezione della democrazia del tutto legittima, anche se essa, ovviamente, non può ridursi all’interruzione del discorso altrui. Dunque, viva Lagioia, che da direttore ha avuto chiara questa differenza, pur avendo doverosamente tentato di vedere se non si potesse, cambiando marcia, trasformare la contestazione in dialogo.
Ciò detto, una riflessione più ampia può essere svolta a proposito della “permalosità”, chiamiamola così, del governo in carica presieduto, come si sa, da una underdog. C’era da aspettarselo: il partito di maggioranza relativa (a cui si è consentito di avere un governo soprattutto per l’incredibile insipienza dei suoi competitori alle scorse elezioni) affonda le radici in un passato, e anche in un presente, che è quello dell’estrema destra europea. Ebbene, questi radicali di destra non possono nulla di concreto: non uscire dall’euro, come fino a non molto tempo fa avrebbero voluto, non bloccare i flussi migratori, che si dimostrano sempre più ingovernabili, ma dovranno pur fare qualcosa per non perdere consensi. Mentre nella sostanza perseverano nelle politiche del governo Draghi – accentuandone gli aspetti liberisti e di precarizzazione del lavoro, e negando il cosiddetto reddito di cittadinanza, già in precedenza oggetto di critiche –, si danno quindi alla costruzione, ammesso che ci riescano, di quella che, con una vecchia parola, si potrebbe chiamare egemonia. Questa, da una parte, avrebbe bisogno della forza (vedi provvedimenti “forti”, anche un po’ ridicoli, come quello contro i rave party e – molto più insidioso – l’ennesimo progetto di revisione della Costituzione nel senso di un irrobustimento dei poteri dell’esecutivo), e, dall’altra, del consenso, che si potrebbe accrescere immettendo nel senso comune elementi di una cultura conservatrice, per la verità già da sempre diffusi in modo sparso in Italia, ma bisognosi di un rinverdimento che ne confermi la presenza e ne riaffermi la presunta dignità.
Di qui, allora, la necessità di contrastare questo disegno – anche in modo rumoroso, quando è il caso – riproponendo il pensiero e i valori di una sinistra di progresso in senso lato, sul piano dei diritti civili e su quello dei diritti sociali, puntando a una controegemonia basata su una democrazia del conflitto. Proprio come, pur nella distinzione dei ruoli, hanno fatto sia le ragazze e i ragazzi della contestazione sia Nicola Lagioia.
Nella foto: il direttore del Salone del libro di Torino Nicola Lagioia