Decisamente da vedere l’ultimo Nanni Moretti, Il sol dell’avvenire, che segna un ritorno alla cifra più propriamente morettiana, quella idiosincratica. Dopo molte prove del tutto fuori fuoco, sono di nuovo al centro dell’opera i tic personali del regista, in particolare quelli di natura metacinematografica e di critica al cinema corrente. Benché ciò avvenga per lo più nella forma dell’autocitazione (significativa l’idiosincrasia “anti-sabot”, cioè contro quelle calzature soprattutto femminili che lasciano scoperto il calcagno, che nel modo in cui viene presentata rimanda a Bianca, probabilmente il suo film migliore, di sicuro il più strutturato), i morettiani “doc” potranno rinverdire la loro passione ritrovando – seppure ormai invecchiato e con i capelli tinti – il loro beniamino.
Un regista di nome Giovanni sta girando un film (di cui peraltro si saprà poco) sul fatidico 1956 vissuto da un segretario di sezione del Pci (Silvio Orlando) del popolare quartiere romano del Quarticciolo. È appena iniziata l’invasione sovietica dell’Ungheria, quando arriva a Roma – invitato dal segretario di sezione che prenderà progressivamente le distanze dalla posizione ufficiale del partito di sostegno alla repressione della rivolta –, proprio un circo ungherese, che farà tra l’altro da spunto per una ripresa di quello che è un tocco stilistico ricorrente in Moretti: l’onirismo felliniano, non per nulla intrecciato a un immaginario circense. Il pretesto del film nel film appare comunque secondario rispetto al tema della crisi familiare che il regista Giovanni si trova a vivere, con una moglie (Margherita Buy) intenzionata a lasciarlo (va perfino da uno psicoterapeuta per dare forza alla propria decisione) e una figlia che sta per sposare un uomo di una quarantina d’anni più vecchio di lei, e sembra ormai poco intenzionata a seguire i riti ossessivi del padre, come quello di rivedere insieme per l’ennesima volta il film culto Lola di Jacques Demy.
C’è una complicazione importante: la moglie di Giovanni ha accompagnato il marito nella realizzazione di tutti i suoi film, e ora si sta dedicando alla produzione di una pellicola di genere molto diverso, con una trama che non ci viene svelata, ma di cui possiamo intuire qualcosa quando il nostro regista si presenta sul set dell’altro regista, con un atteggiamento chiaramente critico, interrompendo addirittura la realizzazione di una scena di ordinaria violenza seriale, quella di un malavitoso che punta una pistola su un ragazzo inginocchiato ai suoi piedi. Una violenza concepita come puro “intrattenimento”, nella sua banalità convenzionale, a cui Giovanni oppone i lunghissimi memorabili sette minuti della soffocante uccisione di un tassista, da parte di un giovane criminale, girati da Kieslowski.
È uno dei punti alti del cinema morettiano: quella che fu già la feroce idiosincrasia giovanile contro la commedia all’italiana di Sordi o di Lina Wertmüller, o contro il “musical sul Sessantotto” girato da un altro regista-antagonista in Sogni d’oro, diventata nel tempo la critica a un certo modo di recepire i film horror estremi provenienti dagli Stati Uniti (in Caro diario), si esprime oggi in questo confronto con quelle serie che fanno delle bande criminali il loro pane quotidiano. E sul conto della tematica metacinematografica c’è da mettere anche un tentativo di telefonata a Scorsese, una dichiarazione di Renzo Piano (proprio lui, l’architetto), oltre alle citazioni di Cassavetes e di quel Demy di cui si è detto; infine un incontro non certo fortunato con i rappresentanti di Netflix. È tutto sommato il diario di un cinefilo rigoroso ciò in cui consiste il cinema di Moretti (quando non si lascia sedurre, quasi per sfuggire a se stesso, da soggetti a lui fondamentalmente estranei, come nel caso del precedente Tre piani).
Il punto è che una condizione idiosincratica di resistenza individuale, all’interno di un mondo sempre meno avvezzo al non conformismo, è difficile e anche dolorosa da sostenere. Prendere moglie, avere un figlio o una figlia – sono altrettanti modi per tentare di stemperare l’umore atrabiliare in un improbabile acquietamento. Moretti ha percorso questi momenti anche sul piano personale, dato che in lui l’intreccio tra cinema e autobiografia è strettissimo. Non sarà stato un bel vivere, se inoltre mettiamo nel conto il dramma della malattia (di cui è testimonianza in Caro diario). Così il tornaconto narcisistico, insieme con l’indiscutibile successo, sono la ricompensa più giusta per un uomo ormai giunto ai settant’anni che, nello scorrere dei decenni, ha cercato con coerenza di saldare drammi privati e vicenda pubblica. Il film del resto, in una immaginaria storia fatta con i “se”, si chiude sulla scena di un piccolo corteo di festosi comunisti, in cui sono riconoscibili come comparse molti degli attori che nel tempo hanno preso parte ai suoi lavori, i quali, inalberando un ritratto di Trockij (tirato in ballo non certo per professione di trotskismo ma in quanto campione e martire dell’antistalinismo), nel 1956 si sarebbero emancipati dall’Unione sovietica. Come il Pci nella realtà non seppe fare.