È tornata la “manina”: immagine e quasi istituzione repubblicana, simbolo dell’opacità dei processi politici nei palazzi romani, viene evocata ogni qualvolta spunta una norma bizzarra nei testi legislativi prodotti dal governo o durante i lavori parlamentari. Stavolta, a suscitare questa sorta di fantasma della cosiddetta prima Repubblica, sono stati i leghisti, dopo che è stato dato risalto pubblico al dossier del Servizio bilancio del Senato sul disegno di legge per l’autonomia regionale differenziata che porta la firma del ministro per gli Affari regionali, Roberto Calderoli.
Il giallo
Il caso esplode nel pomeriggio del 16 maggio, quando un post del profilo ufficiale del Senato su Linkedin sintetizza i contenuti del documento redatto dai tecnici di palazzo Madama, che contiene diversi rilievi critici sul progetto di riforma, affidato a una legge ordinaria e bandiera suprema della Lega (“terzogiornale” ne ha scritto più volte, per esempio qui e qui). Divampa il malumore dei nordisti, i retroscena giornalistici raccontano di una telefonata di fuoco di Calderoli al presidente del Senato, Ignazio La Russa. Sta di fatto che il dossier è un documento di ordinaria amministrazione, già da giorni nelle mani dei senatori e reso pubblico, come ogni testo analogo, attraverso il sito Internet di palazzo Madama. Eppure i leghisti evocano la “manina”, insomma il complotto, una nota del Senato lo sconfessa come “bozza provvisoria non verificata” e il dossier sparisce per un po’ dal sito ufficiale dell’istituzione. Poi, non appena viene fuori la notizia della cancellazione e fioccano le note di protesta per la “censura” dai parlamentari di opposizione, il dossier viene ripubblicato, seppure appunto declassato a bozza.
È lo stesso La Russa, negando di essere dietro la manina (e già questo la dice lunga sulla temperatura delle linee telefoniche in azione fra alleati in questi giorni), a spiegare al “Corriere della sera” di avere sconsigliato la censura tout court: “Il mio unico intervento è avvenuto dopo che era sorto il caso, ed è stato quello di dire che quel dossier non andava ritirato”. Nessuno chiarisce, nel frattempo, a chi mai sarebbe toccato verificare la presunta “bozza” dal momento che i tecnici lavorano formalmente in autonomia e non attendono un visto della politica, anche logicamente: i funzionari parlamentari sono al servizio tanto della maggioranza quanto dell’opposizione, e non possono subordinare il loro lavoro alle opinioni delle mutevoli maggioranze del momento. Impossibile trovare – nei corridoi del sontuoso palazzo che fu il rifugio romano di Margherita D’Asburgo, vedova di Alessandro de’ Medici – un solo funzionario o parlamentare che ricordi un qualsivoglia precedente di riduzione a “bozza” di un dossier ufficiale.
La bocciatura dei tecnici
Pur non essendo certo un giudizio inappellabile, il dossier di sedici pagine prodotto dal Servizio bilancio del Senato non risparmia argomentate critiche all’ambizioso progetto leghista. Per esempio sull’articolo 5 (“Princìpi relativi all’attribuzione delle risorse finanziarie, umane e strumentali corrispondenti alle funzioni oggetto di conferimento”): “(…) nel caso di un consistente numero di funzioni oggetto di trasferimento potrebbe profilarsi l’eventualità di una incapienza delle compartecipazioni regionali sui tributi statali; le regioni più povere ovvero quelle con bassi livelli di tributi erariali maturati nel territorio regionale potrebbero avere maggiori difficoltà ad acquisire le funzioni aggiuntive; le risorse attribuite mediante compartecipazione sono influenzate dal gettito del tributo erariale che a sua volta dipende dal ciclo economico che caratterizza in un dato momento il Paese. In una fase avversa dell’economia è lecito aspettarsi una riduzione del gettito del tributo erariale e una riduzione delle risorse da compartecipazione in assenza di una sua rideterminazione; la compartecipazione sui gettiti dei tributi erariali limita i margini di manovra delle regioni rispetto agli effetti determinati dalle politiche di intervento del governo centrale sui medesimi tributi, salvo poter ricorrere ai propri spazi di autonomia tributaria. In altre parole, con le compartecipazioni le regioni non hanno quel margine di manovrabilità tipico dei tributi propri in quanto è assente la potestà di variazione dell’aliquota stabilita dallo Stato”. Tradotto: le regioni più povere non possono permettersi l’autonomia differenziata, e anche le regioni più ricche possono trovarsi in crisi non potendo aumentare le tasse in caso di ciclo economico negativo.
Altro passaggio critico del dossier del Senato riguarda l’articolo 8 (“Clausole finanziarie”): “(…) premesso che dal presente provvedimento non discendono direttamente oneri a carico della finanza pubblica – si legge – si segnala che tali effetti onerosi, come evidenziato dalla relazione tecnica, potranno concretizzarsi al momento della determinazione dei relativi livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera m). Ulteriori effetti onerosi potrebbero inoltre derivare nella fase successiva alla determinazione dei LEP, in sede di verifica su specifici profili o settori di attività oggetto dell’intesa con riferimento alla garanzia del raggiungimento dei livelli essenziali delle prestazioni, nonché in sede di monitoraggio degli stessi”. Tradotto: i LEP dovrebbero garantire, per esempio, il diritto alla salute per tutti i cittadini, indipendentemente dall’appartenenza a una regione o all’altra; se per garantire quei diritti serve un aumento di spesa, la legge (che, va ricordato, è un collegato alla legge di Bilancio e dovrebbe sottostare quindi a una rigorosa disciplina finanziaria) può provocare effetti finanziari anche se non individua le “coperture” prescritte dall’ordinamento costituzionale.
La tensione nella maggioranza
Oltre il merito della discussione tecnica sul provvedimento, il caso, tutto sommato ridicolo, del dossier di palazzo Madama degradato sul campo, sembra avere allargato la faglia che separa la Lega da Fratelli d’Italia. Sono alleati, e per certi aspetti affini culturalmente, ma si tratta di due soggetti politici in aspra competizione. Matteo Salvini, dopo aver incassato una batosta nelle elezioni politiche dello scorso settembre, ha salvato la poltrona di segretario anche grazie all’impegno preso con i notabili del suo partito proprio sull’autonomia regionale differenziata.
Impantanatasi all’epoca del governo gialloverde nella resistenza silenziosa del Movimento 5 Stelle (che agì sotto lo sguardo non ostile del Quirinale), stavolta rappresenta un punto fondamentale del patto programmatico. A chiarirlo, in questi giorni, lo stesso Calderoli. Il quale, a parte le accuse lanciate all’indirizzo del “centralismo romano” che resiste all’innovazione, ricorda che “il parlamento è sovrano” e quella è la sede nella quale ci si dovrà misurare, anche tra alleati, evidentemente. E se non bastassero le parole di Calderoli, a togliere ogni dubbio ad alleati e osservatori ci pensa Luca Zaia, il presidente leghista della Regione Veneto, che su questa partita si gioca tutta la sua scommessa sul futuro. L’autonomia regionale “è uno dei pilastri – avverte in un’intervista alla “Stampa” – di questa maggioranza, insieme al presidenzialismo e alcune altre riforme. Se non passasse verrebbe meno l’oggetto sociale della maggioranza”.
Sarebbe correre troppo fantasticare di una futura rottura drammatica dell’intesa politica che tiene in piedi il governo di destra-centro. Del resto, è sempre bene ricordare che, anche se con equilibri interni diversi e attraversando stagioni conflittuali e divorzi, la coalizione fondata a suo tempo da Silvio Berlusconi sopravvive da quasi trent’anni. Oggi i numeri in parlamento sono ampi, il consenso popolare tiene, come evidenzia il piccolo test delle recenti elezioni comunali, i progetti sono ambiziosi, come dimostrano sia la raffica di decreti varati dall’esecutivo di Giorgia Meloni, sia il vigoroso slancio col quale è stata affrontata la prima ondata di nomine pubbliche. Ma la spia del fuoco che cova sotto le ceneri sta tutta nella bellicosa dichiarazione del vicepresidente della Camera Fabio Rampelli, un colonnello di Fratelli d’Italia, sebbene non tra i più potenti al momento: “Da parte nostra nessun pregiudizio sul processo federativo che deve andare avanti insieme al rafforzamento delle istituzioni centrali, con l’elezione diretta del capo dello Stato o del premier”. L’esatto opposto della tesi leghista, secondo la quale l’autonomia differenziata va fatta rapidamente, perché passa per la legge ordinaria mentre il presidenzialismo necessita della più complessa procedura di revisione della Costituzione. La partita, quindi, resta aperta.