Con ogni probabilità dobbiamo gratitudine all’armocromista della presidente del Consiglio. Potrebbe essere infatti lei, o lui, ad aver consigliato a Giorgia Meloni di vestire di bianco in occasione degli Stati generali della natalità, proprio come l’ospite più atteso, papa Bergoglio. Questa scelta, infatti, ha reso evidente che lo stesso colore può indicare due tinte opposte. Il discorso del papa, infatti, è stato tutto mirato a indicare la necessità della fiducia per ritrovare la smarrita natalità, che si basa sull’apertura, la sola che può produrre fiducia. Nessun riferimento, dunque, a bambini comprati o “affittati”, ma soprattutto esplicita affermazione che nessuna natalità tornerà a dare un futuro migliore se la contrapporremo all’accoglienza, magari quella dei migranti. Anzi, è proprio la cultura dell’egoismo, della chiusura all’altro, che mette in crisi la procreazione. Francesco ha espresso questo concetto direttamente, esplicitamente, e anche un po’ filosoficamente o poeticamente: “La sfida della natalità è una questione di speranza, che non è illusione o vago ottimismo, è una virtù concreta, è un atteggiamento di vita, si nutre dell’impegno e cresce quando siamo partecipi e coinvolti nel dare senso. Alimentare la speranza è un’azione sociale, intellettuale, artistica nel senso più alto della parola ossia mettere le proprie risorse al servizio comune. La speranza non delude”.
Difficile sperare chiudendosi, respingendo, distinguendo ipotetiche etnie, che, una volta identificate con le lingue in uso, smettono di essere quello che si pensa, perché le lingue si apprendono. Si può pensare anche a questo, leggendo quanto ha detto il papa sui giovani: “Bisogna cambiare mentalità: la famiglia non è parte del problema, ma della sua soluzione. E allora mi chiedo: c’è qualcuno che sa guardare avanti con il coraggio di scommettere sulle famiglie, sui bambini, sui giovani?”. Non sono forse famiglie e giovani anche quelle famiglie e quei giovani che porterebbero i nuovi italiani, quelli nati qui da genitori stranieri?
Francesco, come sovente gli accade, ha sfidato la cultura liberista, diffusa a destra ma anche in certa “sinistra”, dicendo: “Sentirsi soli e contare sulle proprie forze è pericoloso: significa rassegnarsi a esistenze solitarie, in cui ciascuno deve fare da sé e solo i più ricchi possono permettersi la libertà di che forma dare alle proprie vite, ed è ingiusto oltre che umiliante”.
L’idea, espressa dal papa, che solo i più ricchi possano permettersi di avere figli è più problematica, perché se da una parte prende atto di una trasformazione sociale profonda – un tempo erano le famiglie più povere ad avere più figli – sembra però accettare la riduzione dell’emergenza a un fatto economico, che certamente c’è, ma non è l’unico rilevante. L’allungarsi delle aspettative di vita diffonde l’illusione di esserci emancipati dalla nostra limitatezza, cioè l’illusione di una possibile sconfitta della morte, che produce anche la sconfitta della necessità di una nuova vita. Questa illusione di non avere più limiti, di non essere più mortali, è un problema più profondo di quello economico, che non lo sostituisce – ma c’è, coesiste. Come ci sono, e profonde, le nuove paure, diffuse da tempo, come quella dell’apocalisse ambientale, che alberga dentro di noi, e può essere facilmente trasferita al futuro che non ci riguarderà, ma che giungerà di sicuro.
Tutto questo, ovviamente, va insieme con altre paure più visibili: la guerra, il lavoro insicuro, la crisi sociale, il futuro incerto. È a questo che il papa ha fatto riferimento, dicendo: “Il futuro non pare incerto, lo è. In un contesto di incertezze e fragilità le giovani generazioni sperimentano una sensazione di precarietà, per cui il domani sembra una montagna da scalare. Ma dalla crisi non si esce da soli: o siamo tutti uniti o non lo siamo. Non possiamo accettare passivamente che tanti giovani sacrifichino il loro desiderio di famiglia accontentandosi di surrogati. Non rassegniamoci al pessimismo, al sorriso di compromesso”.