In Zakhar Prilepin si racchiudono, in una sintesi perfetta, la redenzione e la dannazione del variegato, contraddittorio, fumoso arcipelago dei liberal russi. Lo scrittore, ferito in maniera piuttosto grave il 6 maggio scorso in un attentato nei pressi di Nizhnij Novgorod (in cui ha trovato la morte un suo amico che era al suo fianco nell’automobile esplosa, e per il cui attentato gli investigatori russi avrebbero già arrestato un uomo), ha attraversato, nella sua vita, molteplici esperienze politiche ed editoriali, passando spesso da una barricata a un’altra. Già poliziotto di Omon (la polizia celere russa), combattente in Cecenia nelle file dell’esercito russo, poi giornalista (ha scritto per il giornale “Limonka” dei nazional-bolscevichi dello scrittore Limonov, così come sulla “Novaya Gazeta” della mai abbastanza rimpianta Anna Politkovskaja), durante le grandi proteste contro Putin e il governo del Cremlino nel 2011-2012, i suoi manifesti campeggiavano nelle città russe (in primis, Mosca) insieme a quelli di altri esponenti dell’opposizione, come Naval’nij, Nemtsov e lo stesso Limonov.
Era uno scrittore già piuttosto noto, all’epoca, tanto da poter spendere la sua immagine in funzione anti-putiniana. Quella protesta, scoppiata agli inizi di dicembre nel centro di Mosca, a Chistye Prudy – contro i presunti brogli elettorali alle elezioni parlamentari, avvenute appena il giorno prima –, aveva messo insieme, come in un improbabile melting pot politico, un ventaglio di forze eterogenee (tutte extraparlamentari), dai liberal come Nemtsov e lo spesso Prilepin, ai seguaci di Naval’nij, via via fino ai comunisti di Sergej Udal’tsov, ai nostalgici dello zarismo, nazionalisti e un po’ fascisti, agli anarchici (chi scrive chiese conto una volta a un giovane anarchico con la bandiera rosso-nera, durante una delle manifestazioni a Mosca, come fosse possibile per lui sfilare insieme ai liberali all’occidentale o agli zaristi. Il ragazzo si strinse nelle spalle, un po’ sperso).
Quel movimento ebbe il suo clou della protesta nella primavera del 2012, subito dopo il ritorno di Putin alla presidenza: nella piazza Bolotnaja (Bolotnaja ploshchad) scoppiarono scontri tra polizia e manifestanti (questi ultimi volevano partire in corteo verso il Cremlino, tentarono uno sfondamento contro il cordone degli Omon, e ci furono incidenti, arresti e feriti). L’imponente manifestazione rappresentò poi la fine di quel movimento di opposizione, anche perché le contraddizioni politiche che conteneva al suo interno, rimosse nei mesi precedenti in nome di “una nuova primavera”, riemersero tutte a galla. I primi ad andarsene furono i nazionalisti, in seguito tutti gli altri, e quella coalizione raccogliticcia si disgregò. Qualcuno però mantenne una certa posizione di privilegio, acquisita in quel percorso: prima di tutti Naval’nij, ovviamente. Poi Nemtsov, fino alla sua uccisione avvenuta a due passi dal Cremlino, nel 2015. Sergej Mitrokhin, Ilya Yashin, lo stesso Limonov, che continuò da “separatista” a manifestare contro Putin nei presidi denominati “Strateghija-31”: 31 come il numero dell’articolo della Costituzione russa sulla libertà di espressione.
Ma si sa, la fine di un progetto ambizioso, come quello di provare a buttare giù lo zar dal Cremlino, genera disillusione e scoramento. Alcuni di quei personaggi, come Prilepin e Limonov, abbracciarono la causa del Donbass (tutto sommato, passarono appena due anni da quel “tutti insieme appassionatamente” alla linea rossa della cosiddetta “rivoluzione di Majdan”). I nazional-bolscevichi, che dovettero cambiare nome in “L’altra Russia”, dopo che il vecchio partito era stato messo fuori legge dal governo, andarono a combattere a fianco dei separatisti di Donetsk e Lugansk. Lo stesso fece Prilepin, entrando così nelle mire del nuovo governo ucraino come nemico.
A sopravvivere (Limonov morì nel 2020 di Covid-19), il solo Naval’nij, che negli anni è riuscito saltuariamente a portare in piazza almeno una parvenza di opposizione (anche grazie al suo appeal “tecnologico” sulle generazioni più giovani). Di Naval’nij non tutti ricordano il suo punto di vista in merito all’annessione della Crimea, per la quale da subito si era espresso favorevolmente, aderendo anche lui al noto slogan russo Krym nash (“la Crimea è nostra”). Prilepin, invece, aveva tentato di riciclarsi “in politica”, fondando il partito “Za Pravdu” (“Per la Verità”), ma confluendo poi nel partito Russia giusta di Sergej Mironov, da anni presente nella Duma, che, nel più classico gioco di ruoli dell’opposizione parlamentare russa, fa la parte di quello socialdemocratico. I libri di Prilepin – da Il Monastero a Scimmia nera e Il peccato – hanno ricevuto negli anni numerosi premi, e sono editi in Italia dalla casa editrice Voland, forse la più autorevole in materia di letteratura russa nel nostro Paese.
Nella foto: Zakhar Prilepin