La Siria si normalizza? Forse è ancora presto per formulare una previsione del genere, ma sicuramente il ritorno di Damasco, dopo dodici anni, nella Lega araba – l’organizzazione politica internazionale che riunisce i Paesi del Nordafrica, del Medio Oriente e della Penisola araba – potrebbe porre le premesse per mettere la parola fine, una volta per tutte, a un conflitto che ha causato più di mezzo milione di morti e più di venti milioni di sfollati. A favorire un reinserimento della famiglia Assad, sono stati in particolare l’Iran e l’Arabia Saudita, le cui relazioni si sono normalizzate il 10 marzo scorso, grazie alla mediazione cinese. Come informa la testata online “Il Post”, il presidente siriano deve fare i conti con tre diversi scenari: a nord-est e a nord-ovest, rispettivamente con le forze curde dell’Amministrazione autonoma del Rojava e con ciò che resta dei combattenti islamici sostenuti dalla Turchia, oltre agli ultimi esponenti dell’Isis, che controllano piccoli territori all’interno del Paese. Una guerra a bassa intensità, il cui andamento potrà essere in parte determinato da una normalizzazione dei rapporti tra Assad e i propri vicini.
Proprio il ridimensionamento delle forze ostili al regime lascia quest’ultimo abbastanza tranquillo in un territorio devastato da una guerra che il regime ha scatenato contro una delle tante “primavere arabe”, nel 2011. Le conseguenze di quel conflitto sono state devastanti: oltre sette milioni di siriani sono fuggiti, mentre coloro che sono rimasti sono sottoposti ai controlli e alla repressione del regime. A oggi non si hanno notizie di circa centomila siriani, probabilmente detenuti o morti. A rendere ancora più drammatica la situazione, è intervenuto lo scorso febbraio un terribile sisma, con magnitudo 7,8, che ha colpito anche la Turchia. Gli aiuti arrivati, anche grazie all’ammorbidimento delle sanzioni contro Assad, sono stati gestiti nella loro distribuzione dal regime, che ha reso difficile il loro arrivo nelle zone non controllate da Damasco, in un contesto dove da oltre sei anni un milione e mezzo di persone vive in condizione di grave precarietà, in tende che non proteggono dal caldo e dal freddo, senza acqua e beni di prima necessità.
Tutto questo rende ancora più necessario un ritorno della Siria nella Lega araba, all’interno di una ridefinizione di un nuovo ordine mondiale che comprende, necessariamente, un’area cruciale come quella mediorientale. Da tempo altri Paesi arabi avevano avviato un processo di normalizzazione dei rapporti con Damasco. Tra questi spiccano, fin dal 2018, gli Emirati arabi uniti, dove Assad si è recato più volte, l’ultima nello scorso marzo. Tutto questo malgrado Abu Dhabi abbia normalizzato i rapporti anche con Israele – al contrario ancora in conflitto con la Siria –, nell’ambito degli “Accordi di Abramo” del 2020, realizzati grazie all’intervento dell’allora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.
Normalizzati anche i rapporti con l’Arabia Saudita, già acerrima avversaria di Damasco e finanziatrice dei gruppi ribelli integralisti. Lo scorso aprile, il ministro degli Esteri siriano, Faisal Mekdad, è stato accolto in Arabia Saudita dal suo omologo, Faisal bin-Farhan. Un riavvicinamento figlio dell’intesa con Teheran, da sempre alleata di Damasco. Ultimamente anche la Giordania e il Bahrein hanno riaperto le proprie ambasciate nella patria degli alauiti, la Siria, e ripreso i rapporti diplomatici.
Diverse le ragioni che hanno riportato a una ricucitura dei rapporti con la Siria da parte dei Paesi dell’area. “Tutti i Paesi della regione hanno delle questioni con la Siria che devono essere discusse e negoziate” – ha detto (citando ancora “Il Post”) al “New York Times” Joshua Landis, direttore del centro studi sul Medio Oriente dell’università dell’Oklahoma. Dal canto suo, la giornalista Kim Ghattas, sul “Financial Times”, ha affermato che “Assad ha causato dei problemi che i suoi vicini non riescono a risolvere senza di lui”.
Uno dei nodi da sciogliere, forse il principale, riguarda i rifugiati siriani. Se la Siria dovesse garantire un minimo di condizioni di sicurezza, molti potrebbero ritornare in patria. Stiamo parlando di quasi 3,5 milioni in Turchia, sul ritorno dei quali i candidati alle presidenziali del prossimo 14 maggio si sono sperticati durante la campagna elettorale. Vanno registrate cifre minori, ma pur sempre significative, in Giordania – 660mila rispetto a dieci milioni di abitanti –, 805mila in Libano, Paese che sta attraversando una gravissima crisi economica e sociale, e, per finire, 261mila in Iraq e 145mila in Egitto. Senza contare la Germania, che ha ospitato oltre un milione di rifugiati siriani.
Diversi gli interessi dei sauditi e degli emiratini, alle prese con un inedito traffico di una droga chiamata Captagon, realizzata attraverso un composto fatto di amfetamina e caffeina, il cui lucroso commercio è gestito da uomini, militari e non, vicinissimi ad Assad. Si tratterebbe di un giro di affari da miliardi di euro l’anno, impossibile da arginare senza l’aiuto del regime.
Quello che abbiamo descritto è un vero e proprio ginepraio, dove ogni Stato gioca un proprio ruolo autonomo dalle grandi potenze. Paesi amici della Russia – appunto Siria e Iran – dialogano tranquillamente con regimi filo-occidentali, i quali si avvalgono del sostegno di Pechino nella risoluzione dei problemi che li affliggono e, in un futuro non troppo lontano, di uno scambio economico, che certamente potrà portare a un ridimensionamento del ruolo degli Stati Uniti nell’area. Che dovranno decidere se scontrarsi con questo nuovo assetto, da una posizione sempre più marginale, o invece scegliere il dialogo. Per questo, fino a quando non si farà chiarezza sulla nuova divisione del mondo, la conclusione della guerra tra Russia e Ucraina appare lontana.