Il 26 giugno del 2006 e il 4 dicembre del 2016, due leader politici tutt’altro che marginali nella storia recente dell’Italia hanno appreso, con un certo disappunto, che gli elettori, per quanto possano essere di volta in volta affascinati dalle doti di un leader e trascinati sull’onda di una stagione politica vincente, hanno conservato una qualche capacità autonoma di giudizio. Le due cocenti sconfitte (con il “no” di circa sei elettori su dieci in entrambi i casi) delle riforme costituzionali nei referendum confermativi, tuttavia, non hanno scoraggiato le figure di riferimento della politica nazionale dal riprovarci. Con quello che, con ogni probabilità, resterà il lascito più pesante della sua non troppo luminosa carriera politica, Luigi Di Maio, all’epoca già ex leader del Movimento 5 Stelle, vinse largamente la scommessa del plebiscito sul taglio dei parlamentari, riforma imposta prima agli alleati della Lega poi a quelli del Pd, entrambi alquanto malleabili di fronte alle esigenze della tenuta del governo, e a gran parte del parlamento. Sarà anche questo unico precedente positivo ad aver spinto Giorgia Meloni, e gli alti papaveri della maggioranza di destra-centro, a ipotizzare, in più di una presa di posizione pubblica, una nuova riforma costituzionale da attuare se necessario a maggioranza.
Dopo un primo blando giro di consultazioni, svolto nei mesi scorsi dalla ministra per le Riforme Elisabetta Casellati, la presidente del Consiglio ha preso in mano il dossier e si è resa protagonista di un più solenne giro di colloqui a Montecitorio con le sole forze di opposizione. Non è un segreto che il patto fra la Lega e Fratelli d’Italia sulle riforme preveda lo scambio fra l’autonomia regionale differenziata (“terzogiornale” ne ha parlato qui e qui) e il presidenzialismo.
Meloni, con la proposta presidenzialista, si è riconnessa alle sue radici più autentiche: Giorgio Almirante, reduce della Repubblica di Salò e storico leader del Movimento sociale italiano, fu un fervente sostenitore di questa riforma. Ma si fa strada in questi giorni un possibile ripiego tattico per il mitico “premierato”, l’elezione diretta del capo del governo, sperimentata solo in Israele, per tre legislature, e poi abrogata senza troppi rimpianti nel 2001.
Volendo fare un passo indietro, sarebbe lecito domandarsi per quale motivo si debba attaccare una parte così delicata degli equilibri della Costituzione in un quadro politico-istituzionale reale (che va già oggi ben oltre gli intendimenti dei padri costituenti) nel quale “Giorgia Meloni ha più poteri di Joe Biden”, visto che “l’inquilino della Casa Bianca i decreti non li può fare”, come ha osservato il costituzionalista Michele Ainis. A suo giudizio, in Italia “siamo di fronte a un presidenzialismo di fatto”, nel quale “è il governo a legiferare”, l’iniziativa parlamentare è quasi azzerata, il bicameralismo non esiste più. Con la raffica di decreti legge e voti di fiducia, di cui più o meno tutti gli ultimi governi hanno abusato come metodo per il rapporto col parlamento, una Camera decide, l’altra ratifica; sono ormai rarissimi i casi di “navetta” parlamentare, in cui uno dei due rami del parlamento corregge eccessi ed errori dell’altro.
Sta di fatto che nello show della Camera, con le dichiarazioni dei leader alla stampa, le opposizioni hanno accettato la sfida, forse per timore di non apparire abbastanza riformatrici. Il governo Meloni ha quindi già incassato un primo risultato, quello di avere fissato l’agenda del dibattito pubblico su un terreno congeniale, nonostante le timide proteste di Pd, 5 Stelle e frattaglie di sinistra sulla necessità di occuparsi delle “vere emergenze” nazionali: salari, inflazione, sanità pubblica, Pnrr, crisi climatica.
Ma un secondo successo sembra di poter registrare all’esito dell’iniziativa della presidente del Consiglio: mettere in ombra le divisioni a destra (anche se le aperture al premierato, e le richieste di alcune forze di opposizione di mettere in stand by l’autonomia regionale differenziata, qualche nervosismo leghista lo hanno portato alla luce), ed evidenziare il dato che le opposizioni vanno in ordine sparso.
Matteo Renzi, separato in casa (nei gruppi parlamentari comuni) da Carlo Calenda che lo accusa di voler entrare in maggioranza, apre al premierato, che somiglia tanto al “sindaco d’Italia”, immaginato a suo tempo dall’allora leader del Pd. Il “sì” di Renzi avvicinerebbe ma non garantirebbe l’obiettivo, per ora lontano, dei due terzi dei voti parlamentari che sarebbero necessari a evitare il referendum confermativo. Giuseppe Conte, a nome dei 5 Stelle, chiede una bicamerale per evitare che le opposizioni siano chiamate a fare solo da comparsa. Elly Schlein dice che lo strumento per il varo delle riforme non è decisivo, ma che la discussione non può essere predeterminata. Calenda, Conte e Schlein dicono: “Giù le mani dalle funzioni del presidente della Repubblica” – e casomai aprono a correzioni “alla tedesca” come la sfiducia costruttiva. I renziani giurano che il premier eletto dal popolo non intaccherebbe il ruolo del Quirinale e non lo ridurrebbe a un taglianastri.
Uno scenario che, come appare evidente, si presenta ideale per gli obiettivi del governo. Resta da vedere su quale terreno potranno tentare di giocare la loro partita le opposizioni, quelle che tenteranno di coordinarsi (Pd, 5 Stelle, verdi-sinistra e forse Azione), e quella che ha già deciso di giocare in campo aperto, cioè Italia viva. Entro l’estate, dovrebbe arrivare il testo del governo: per allora forse qualche idea se la saranno fatta venire in mente.