Il prossimo 17 dicembre, i cileni chiamati a votare al referendum il testo della loro Carta fondamentale dovranno scegliere se mantenere la Costituzione di Pinochet, per quanto ritoccata per sessantaquattro volte dal ritorno della democrazia, o quella che nei mesi a venire verrà scritta dalla maggioranza del Consiglio costituzionale, organismo in cui il Partido republicano di estrema destra di José Antonio Kast, sostenitore del testo attualmente in vigore, la farà da padrone. È questo, infatti, il risultato del voto con cui poco più di quindici milioni di cileni hanno eletto ieri i cinquanta consiglieri costituzionali che riceveranno, per la revisione e gli aggiustamenti necessari, il testo preparato in precedenza da esperti con dodici principi essenziali che non possono essere modificati, come quello, per esempio, che fa del Cile un’economia di mercato con partecipazione statale e privata. Il Consiglio inizierà i suoi lavori in giugno, e il progetto di Carta costituzionale dovrà essere approvato dal voto popolare.
Si chiude così, con più di due milioni di voti nulli, che testimoniano dell’apatia e della delusione con cui a sinistra è stato vissuto l’appuntamento elettorale, quel lungo processo che aveva visto precedentemente il Paese eleggere una Convenzione dominata dal progressismo e da una maggioranza di candidati indipendenti, in cui venivano riconosciuti diciassette seggi alle minoranze indigene. Un riconoscimento di cui non è rimasta traccia nel nuovo organismo. I rapporti di forza usciti dal voto della Convenzione avevano relegato i rappresentanti dei partiti politici – specialmente quelli di destra – a posizioni marginali; mentre la sua maggioranza aveva scelto di dare voce alla miriade di identità e richieste emerse a seguito dell’estallido social dell’ottobre 2019.
La bozza di Costituzione, un testo fortemente progressista che avrebbe introdotto nel Paese andino una delle Carte più avanzate al mondo, è stata poi respinta dalla maggioranza degli elettori il 4 settembre dell’anno scorso. Questo ha dato il via al lungo “termidoro in salsa cilena” che ha portato alla scelta del Consiglio costituzionale composto da venticinque uomini e venticinque donne, eletto ieri, in cui il blocco di destra ha ottenuto il 56,5% dei voti. Un terremoto negli equilibri politici cileni, un risultato che è andato molto al di là di quanto veniva previsto dai sondaggi.
Il risultato segna anche un rimescolamento delle carte nello schieramento di destra, dove l’ala estrema del Partido republicano, contrario a ogni modifica del testo di Pinochet, ottiene il 35,5%. Fondato nel 2019, il partito di José Antonio Kast ha visto crescere la propria influenza grazie a un discorso basato sulla crisi dell’ordine pubblico, sulla sicurezza, sul controllo dell’immigrazione e sui problemi dell’economia.
Chile seguro, la destra tradizionale (che comprende Udi, Renovación nacional e Evópoli), ha ottenuto il 21%, ed è stato superato per la prima volta dalla destra estrema. È presto per dire se la destra moderata continuerà a essere disponibile a un cambio costituzionale. Nel referendum del settembre del 2022 aveva chiesto di bocciare il testo della Convenzione, ma con la promessa di redigerne uno nuovo capace di far convergere su di esso le differenti anime della società cilena. Ma ora potrebbe essere risucchiata dal tornado provocato da Kast – la cui linea, nel Consiglio che andrà presto a insediarsi, ancora non è chiara, dato che non ha firmato l’accordo per un secondo tentativo costituente nel dicembre 2022. Dalle prime dichiarazioni, Kast, il vincitore di ieri, parrebbe ostentare prudenza. “Il buon senso ha trionfato” – ha detto, auspicando che “il settarismo non si impadronisca mai più del Paese”. E ancora: “Abbiamo raggiunto un obiettivo importante, ma non è il momento di dividere il Paese, quanto piuttosto di lavorare in unità per il bene del Cile”.
Sull’altro versante, i partiti che sostengono il governo si sono presentati divisi. Nel loro complesso, le liste di sinistra e di centro sono ferme al 37,5%. Unidad para Chile, la coalizione che raggruppa il Frente amplio del presidente Gabriel Boric, i socialisti e i comunisti, ottiene il 28,5%. Flop per Todo por Chile, dell’ex presidente Ricardo Lagos, e della Democrazia cristiana, il 9% e nessun seggio. Si squaglia come neve al sole anche il populista Partito della gente, che ha raggiunto il 5,5%.
Allo schieramento che sostiene Boric vanno solo diciassette seggi, lontano dai ventuno necessari per avere potere di veto all’interno dell’organo costituente, mentre in Unidad para Chile, il Frente amplio raggiunge il 12,28%, il Partito comunista l’8,07%, e quello socialista il 5,96%.
Il risultato di domenica ha reso possibile qualcosa che pareva impensabile, ovvero che per la prima volta dal ritorno alla democrazia, l’ultradestra nostalgica di Pinochet diventa la forza maggioritaria nel Paese, mentre lo schieramento conservatore, nel suo insieme, ha la maggioranza assoluta nel Consiglio costituzionale con trentatré seggi, ventidue dello schieramento di Kast, e undici della destra moderata.
Superato il quorum di 3/5 dei cinquanta consiglieri, richiesto per elaborare le norme costituzionali e controllare il Consiglio, la destra potrà approvare le nuove norme costituzionali, senza la necessità di fare un patto con la sinistra, mentre il Partido republicano eserciterà di fatto la leadership del nuovo organismo, con ampia facoltà di imprimere la direzione desiderata alla nuova proposta di Magna Carta.
Intanto, con un intervento televisivo, Gabriel Boric, ha chiesto al Partido republicano di “agire con saggezza e temperanza”, e di “non commettere gli stessi errori” della sinistra durante il primo processo costituente. “Il processo precedente, dobbiamo dirlo, è fallito perché non sapevamo ascoltarci tra quelli di noi che pensavano diversamente. Voglio invitare fin da ora il Partido republicano a non commettere lo stesso errore che abbiamo fatto noi” – ha detto Boric. Mentre Camila Vallejo, la portavoce del presidente, ha affermato che indipendentemente dai risultati elettorali, il governo cercherà di realizzare le promesse fatte in campagna elettorale. E andrà avanti per un nuovo patto fiscale, per la riforma delle pensioni, per il salario minimo a 500mila pesos, per l’introduzione della royalty mineraria e per la strategia nazionale del litio, di cui il Cile è un grande produttore.
Eletto al ballottaggio con Kast, il più votato al primo turno, quando già si percepivano i primi accenni del cambio di tendenza dopo l’esplosione sociale del 2019, Gabriel Boric, il più giovane presidente della storia cilena, ha vissuto i primi due anni di mandato tra crescenti difficoltà, e con un sostegno popolare minoritario nel Paese. Dalla bocciatura del referendum del settembre scorso, quando il governo si era fortemente speso per la nuova Costituzione uscendone indebolito, a oggi, l’azione del suo esecutivo non è stata giudicata in grado di dare risposte ai problemi reali del Paese. E non ha saputo impedire il dilagare dell’estrema destra, che ha approfittato dei suoi errori e di quelli dello schieramento che lo sostiene, per avvantaggiarsene. Ora il quadro si fa, se possibile, più fosco: tanto da far temere la scadenza del dicembre 2025, quando il Cile sarà chiamato a eleggere il suo nuovo presidente.