Provo disagio nell’intervenire a proposito del tragico evento che riguarda Barbara Capovani, la psichiatra pisana aggredita e uccisa lo scorso 21 aprile. In un’ottica di estremo rispetto per la sofferenza dei suoi cari, cercherò di sviluppare alcune riflessioni. In punta di piedi, però, senza voler trasformare questo evento in un’arena in cui lanciare le ideologie l’una contro l’altra armata. I miei trentasei anni di servizio pubblico come psichiatra, e le mie esperienze di vita, mi inducono ad affrontare il tema dai punti di vista dei vari attori: il modello di salute mentale, gli operatori che lo mettono in atto, gli utenti, le loro famiglie, la comunità territoriale, il modello socioeconomico dominante.
Partiamo dal primo punto, ovvero dal modello clinico che dovrebbe guidare il nostro lavoro. Nel 1995 viene posta con forza, dall’Istituto di medicina sociale di Harvard, la questione dei determinanti della salute mentale: povertà, crisi economiche, crisi valoriale, cambi climatici, guerre, pandemie – sono alcuni dei fattori concause di patologie mentali. Ecco, quindi, che se non lavoriamo per ridurre l’impatto dei determinanti sociali rischiamo di creare le condizioni per produrre persone sofferenti che delegheremo ai servizi di salute mentale. Un banalissimo esempio: più volte è stata citata la giusta preoccupazione, espressa anche dalla Società italiana di psichiatria, di vedere trecentomila nuovi utenti in seguito alla pandemia. Numeri esorbitanti sia per le persone che soffrono, sia per gli operatori già allo stremo, carichi di lavoro e con risorse in perenne diminuzione. Ma andrebbe fatta una considerazione: se durante la pandemia tutti avessero avuto una situazione economica rassicurante, case dignitose con spazi sufficienti, relazioni soddisfacenti, sicuramente ci sarebbero stati episodi di esordio di patologie psichiche, ma non certo di questa entità. E quindi con possibilità di essere assistiti meglio. Eppure si legge sul sito del ministero che negli ultimi anni i fondi per interventi riabilitativi sono stati quasi dimezzati!
In secondo luogo, consideriamo quanto riportato dall’ex direttore del servizio pisano, che giustamente sottolinea come esistano anche individui con personalità antisociali che sarebbe più opportuno trattare come tali, perché si sa che in questi casi è quasi impossibile ottenere risultati con un “trattamento” farmacologico o psicoterapico, o psicosociale. Queste persone (per fortuna una estrema minoranza) possono essere controllabili se inserite in contesti molto contenitivi (i vecchi libri di psichiatria citavano come nella legione straniera alcuni psicopatici avessero trovato ruolo e contenimento). Ma se Pasquale Barra, feroce sicario della camorra, non avesse avuto la sponda della criminalità organizzata, lo avremmo inviato ai servizi di salute mentale? Eppure una diagnosi di disturbo antisociale sarebbe risultata più che credibile.
Nello specifico, non intendo fare considerazioni perché non conosco la situazione; mi pare, però, che esistessero segnali di una deriva persecutoria, e questo è il punto, al di là dello specifico caso. In proposito, ricorderei un aneddoto su Franco Basaglia: quando a Gorizia avevano cominciato a mandare a casa pazienti rinchiusi da anni, uno di loro, in maniera preterintenzionale, uccise la moglie. Attaccato duramente dai giornalisti replicò a uno di loro: “Proprio sul suo giornale oggi si parla di un marito geloso che ha ucciso la moglie. Allora cosa facciamo, rinchiudiamo tutti i mariti gelosi?”. Al riguardo, nel 2005, una sentenza della Cassazione equiparava i disturbi antisociali a quelli psichiatrici, per cui non punibili. E la stessa Organizzazione mondiale della sanità dichiarò che, percentualmente, i casi di violenza da parte di persone con sofferenza psichica sono molto inferiori a quelli commessi dai cosiddetti normali. La protezione passa dal cogliere alcuni segnali per poter intervenire – pensiamo ai femminicidi. Sicuramente non possiamo umiliare i servizi di salute mentale usandoli come bidone della spazzatura per ogni problema, dal cassaintegrato depresso agli adolescenti con disturbi del comportamento alimentare, al migrante chiuso nel Cpr, o in attesa interminabile di sapere se la sua pratica verrà accolta. Gli adolescenti di oggi, drogati dal mito della performance e dal dover sempre essere all’altezza, vivono una situazione che non può che trasformarsi in un sentirsi soli e sovraesposti. Pensiamo all’occupazione del liceo Manzoni, a Milano, contro la società della prestazione.
Ora passiamo alla triade operatori, utenti e familiari. Solo un’alleanza tra i tre attori può creare quel clima di fiducia, rispetto e reciprocità, necessario a trovare una via di uscita dalla sofferenza. Penso all’open dialogue, una modalità di approccio alla salute mentale che troppo poco spazio trova nei nostri dipartimenti. O ai gruppi multifamiliari allargati. Penso alla grande intuizione di Basaglia: vedere la persona che la malattia ci nasconde, chiudere i manicomi non come fine esclusivo, ma anche come mezzo per valutare la capacità di un territorio di ospitare dentro di sé il diverso. Penso al metodo assembleare, alle soluzioni condivise e al lavoro su determinanti sociali e costruzione della comunità competente, ovvero a una cura attraverso la reciprocità e il senso di appartenenza. Non uguaglianza, ma equità: nel senso che ciascuno abbia le opportunità per esprimersi secondo quello che è. Le risposte emotive – comprensibili ma spesso controproducenti – sono quelle di una sorta di patologia del controllo, come se si potesse prevedere tutto.
Non ho soluzioni pratiche da proporre, se non quella di coinvolgere le famiglie, gli utenti, gli operatori, le associazioni, il territorio per costruire la comunità della cura: di sé, dell’altro, della natura. Un luogo accogliente ove non si può pensare di eliminare i problemi, comprese le situazioni come quelle di Pisa. Ognuno svolgendo il suo ruolo. Se critichiamo la legge 180, ciò ha senso per fare modifiche condivise con gli utenti, centrate sulla buona prassi (recovery e open dialogue in prima fila, ma non solo). Se pensiamo di lavorare sul controllo dei comportamenti fino a negare la territorializzazione del disagio, il clima di reciprocità e di fiducia sarà soppiantato da risposte guidate dalla paura, dalla rabbia, dall’aggressività. E questo non può essere certo l’humus della cura.
*Psichiatra