Quelle del prossimo 14 maggio saranno una delle elezioni più importanti della storia della Turchia, e di sicuro decisive per il futuro dell’attuale presidente Recep Tayyip Erdoğan, leader del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp), di stampo islamista, al potere dal 2002. Ventuno anni che hanno trasformato il Paese laico fondato da Kemal Atatürk, padre della Turchia moderna, nata esattamente un secolo fa, nel pericoloso laboratorio di un islamismo solo apparentemente moderato, che invece, da un lato, ha strizzato l’occhio agli estremismi più pericolosi (vedi Isis), e dall’altro ha attuato un drammatico giro di vite contro la libertà degli oppositori, dei giornalisti e in generale delle donne, costrette a obbedire a ordini e costumi più vicini a quelli dell’Iran che ai valori dei “giovani turchi”, che nel 1908 posero le basi per la costruzione di un Paese che coniugava la modernità alla laicità, sia pure in un contesto fortemente autoritario.
L’avversario più temibile per il “sultano” del Ventunesimo secolo, che non ha mai nascosto il sogno di riconquistare i territori del vecchio impero ottomano, è Kemal Kılıçdaroğlu, leader del partito repubblicano di ispirazione kemalista Chp (Partito popolare repubblicano), e a capo del “Tavolo dei sei”, una coalizione di partiti uniti contro il nemico islamico. In caso di vittoria, ci sarebbe un cambiamento di rotta importante nei confronti dell’Europa riesumando la vecchia quanto sofferta richiesta di adesione a Bruxelles. Ricordiamo che i primi negoziati furono avviati, nell’ambito di una conferenza intergovernativa, il 3 ottobre 2005, quando Erdoğan era già primo ministro, mentre il 18 febbraio 2008 fu adottato il partenariato per l’adesione.
Ma con l’arrivo del “sultano” alla presidenza della Repubblica tutto è cambiato. Se, da un lato, la Turchia si allontanava da quegli standard democratici già deficitari durante i governi laici, dall’altro, il capo dello Stato euroasiatico si era a sua volta allontanato dall’ipotesi europea, privilegiando invece l’acquisizione di un potere sempre maggiore nell’area mediorientale e mediterranea. Questo gli ha permesso di giocare, o almeno di provare a giocare, un ruolo importante nella mediazione con la Russia nell’ambito del conflitto con l’Ucraina.
Nel caso vincesse Kılıçdaroğlu, anche sul piano interno, tutto dovrebbe cambiare favorendo la democratizzazione del Paese: la coalizione kemalista interverrebbe a favore di un migliore bilanciamento dei poteri, e di un maggior rispetto della liberà di espressione e dei diritti umani, oltre che garantire l’indipendenza della magistratura. In gioco potrebbe esserci anche quel passaggio che, nel 2018, ha introdotto un pericoloso presidenzialismo rafforzato a scapito dei poteri parlamentari: ma su questo aspetto istituzionale l’opposizione non si è ancora espressa. Rispetto al dissenso interno, si parla addirittura di una possibile scarcerazione del co-presidente del principale partito filocurdo, Selahattin Demirtaş, oltre che del filantropo Osman Kavala, nel rispetto delle sentenze emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Ribadiamo la sorpresa riguardo al dirigente curdo perché anche i kemalisti hanno sempre visto come il fumo negli occhi le rivendicazioni indipendentiste, o anche solo autonomiste, curde fino alla proibizione assoluta dell’insegnamento della lingua. Anche se non va dimenticato che il voto della componente curda rappresenta circa il 20% della popolazione del Paese: dunque potrebbe essere l’ago della bilancia in un contesto elettorale molto incerto, che sta costringendo tutte le forze politiche in campo ad ammorbidire i toni nei confronti di questo sfortunato popolo.
Ciò potrebbe significare uno sblocco dell’ingresso della Svezia nella Nato, che potrebbe mettere da parte appunto il tema dell’estradizione dei curdi – condizione posta da Erdoğan per far entrare Stoccolma nell’Alleanza atlantica. Ma non c’è da escludere che lo stesso presidente in carica possa rendersi al riguardo più disponibile qualora venisse rieletto. Resterebbe, invece, inalterata la convenienza politica sui migranti nei confronti dell’Europa, e il ruolo di mediatore con la Russia di Putin, che, se finora non ha portato a nessun risultato, consentirebbe ad Ankara di restare tra i protagonisti della scena politica internazionale. Erdoğan ha ricevuto più di sei miliardi di euro per trattenere i migranti, in gran parte siriani, e ha utilizzato questo strumento per ricattare l’Europa. Inoltre un eventuale riavvicinamento con la Siria di Bahar al-Assad gli potrebbe consentire di rimpatriare circa un milione di immigrati. Ma Ankara non vuole ritirare le proprie truppe nel nord della Siria: dunque il presidente è arrivato all’appuntamento elettorale con un nulla di fatto. Come dicevamo, sul tema migranti non c’è da aspettarsi un cambio di rotta qualora dovesse vincere Kılıçdaroğlu, anche se quest’ultimo sarà più propenso al dialogo con l’Europa piuttosto che perseverare con la politica del ricatto.
Anche sul fronte russo cambierà ben poco con la vittoria dei kemalisti. A prescindere da chi governerà, la Turchia ha infatti troppi interessi in gioco, per esempio quello energetico, che non le consentono pur facendo parte della Nato, di fare propria la politica occidentale nei confronti di Mosca. Probabilmente nulla di nuovo anche sul fronte greco. Tra il premier grecoKyriakos Mītsotakīs e il presidente turco c’è stato un riavvicinamento, in quella che è stata definita “la diplomazia dei disastri”, ovvero il terremoto in Turchia e l’incidente ferroviario in Grecia. Ma tutto lascia presagire che si ritornerà al precedente assetto diplomatico, il quale, nel caso vincesse Kılıçdaroğlu, dovrebbe riaprire la questione cipriota e del Mediterraneo, senza che ci si possa illudere troppo su eventuali sviluppi delle vertenze in corso in quell’area. Il leader kemalista ha altresì promesso un’equa spartizione delle risorse presenti nel Mediterraneo orientale, dov’è presente anche l’Italia attraverso l’Eni.
Erdoğan arriva all’appuntamento nel bel mezzo di una crisi economica importante (vedi qui): con un’inflazione particolarmente alta che lo scorso anno ha superato il 60%, anche se dati non ufficiali la davano molto più alta. Se si considera che nel 2021 viaggiava intorno al 20%, ci si può rendere conto della drammaticità della situazione. Di conseguenza, nello scorso dicembre, i prezzi dei principali beni di consumo erano aumentati del 64,3%, per conoscere, successivamente, una riduzione. Un’impennata dovuta a una singolare politica monetaria adottata dal presidente, che ha tentato di abbattere l’inflazione diminuendo i tassi di interesse: una politica che non ha sortito effetti positivi. Un quadro complicato, mitigato da una crescita economica che, nel 2022, è stata del 5,6% contro il 7,6 dei primi mesi dello stesso anno. Il tutto accompagnato da un aumento del salario minimo, degli stipendi del settore pubblico e delle pensioni.
Mancano solo venti giorni circa a un appuntamento elettorale in un Paese in cui l’opposizione non ha mai avuto vita facile. Basta ricordare il trattamento riservato all’attuale sindaco di Istanbul, il carismatico Ekrem İmamoğlu, esponente del Chp, messo fuori gioco da una ridicola condanna a due anni e sette mesi, con l’accusa di avere insultato i funzionari del Consiglio elettorale supremo (Ysk), quando questi presero la decisione di annullare i risultati della prima tornata elettorale del voto comunale. Il primo cittadino della città del Bosforo è stato poi sostituito, appunto, da Kılıçdaroğlu.
Per Erdoğan una sconfitta significherebbe vedere crollare come un castello di carte tutte le sue smodate ambizioni; e c’è da giurare che l’uomo potrebbe fare carte false per evitare quello che potrebbe essere l’inizio di un declino, con il ritorno nella stanza dei bottoni degli esponenti della Turchia di una volta.
Nella foto: Kemal Kılıçdaroğlu