A volte ritornano, è vero. Ma questa volta sono accompagnati e non da soli. Ci riferiamo alla ricomparsa sulla scena politica di Gianfranco Fini, presentato e confezionato da Lucia Annunziata. L’ex presidente della Rai, oggi conduttrice di un fortunato programma di attualità politica e internazionale della domenica pomeriggio su Rai 3, sta sperimentando una nuova tecnica, che potremmo definire di king building, cioè di allestimento di una leadership politica. Un meticoloso restauro – di forma e contenuti – della figura del fondatore di Alleanza nazionale. E i titoli con cui i giornali di destra hanno reagito all’incursione nel loro campo di quello che considerano un pericoloso intruso, fanno intendere come il nervo sia scoperto e come la giornalista abbia colto nel segno.
Si tratta di un’operazione del tutto pubblica e trasparente: Annunziata procede per intuizioni giornalistiche. Innanzitutto, mettendo a fuoco la faticosa e impacciata emancipazione del partito di maggioranza, e in particolare della premier Meloni, dalle ombre del passato fascista. Un impaccio di cui la lettera al “Corriere”, con la quale l’attuale inquilina di palazzo Chigi ha inteso replicare alle accuse, è un vero monumento: di ipocrisia e contorsione psicopolitica. Siamo dinanzi a una vera inibizione, che intacca seriamente il possibile consolidamento di Fratelli d’Italia come reale forza moderata e di governo del Paese. Le barcollanti uscite identitarie di La Russa, con il suo spettacolare pasticcio di Praga, o l’aneddotica sparsa di parlamentari e amministratori locali del partito, colti con il braccio teso, sono la patologia di un fenomeno più serio e consistente: l’irrinunciabilità al richiamo missino come collante e cemento di un mondo disadattato al ruolo di centro del governo. Meloni sa bene quanto pesi nel suo mondo il richiamo della foresta fascista.
Lucia Annunziata ha inquadrato perfettamente questo punto di frequenza, come si dice per i cristalli, in cui si localizza la posizione di massima fragilità di una lastra. Il mosaico della maggioranza, al di là della robustezza dei numeri e soprattutto della debolezza delle opposizioni, sprigiona energia conflittuale, che tende a esporre la fragilità culturale e politica della presidente del Consiglio. Forza Italia e Salvini, ognuno per la propria parte, tendono a sfruttare ogni momento di imbarazzo e difficoltà del loro partner maggiore, premendo sulle contraddizioni. Ora da posizioni ancora più oltranziste, come la Lega sull’Europa o sugli immigrati, e a volte da posizioni più centriste, come i berlusconiani, appunto, sulla memoria o sul fisco.
Ma il vero buco nero riguarda la relazione con il mondo delle imprese e il tappeto delle professioni a cui la destra guarda con golosità, per accreditarsi come soluzione di lungo termine. Qui le sbandate nostalgiche stanno già creando scollamenti, soprattutto se combinate con le delusioni che ceti “radicali” – dai balneari ai pensionandi – già registrano rispetto a promesse e aspettative eccitate in campagna elettorale.
In questo scenario, la riesumazione di una figura che indubbiamente conserva i tratti di un uomo istituzionale – indiscutibile la sua interpretazione del ruolo di presidente della Camera, pronto a mutare seriamente bagaglio ideologico, capace di sorprendere le tradizionali vestali reazionarie, con impennate culturali che contendono alla sinistra temi forti, dalle questioni biologiche a quelle dell’immigrazione e delle relazioni europee – non è solo un gioco mediatico. Fini, nella fase finale del suo distacco da Berlusconi, prima dell’incidente immobiliare di Montecarlo, ebbe posizioni da destra sociale che recepiva temi forti del progressismo, come per i diritti civili, lo stesso ius soli, oppure riguardo alle differenze di genere, per non parlare della sua espressione finale sul fascismo male estremo, che pesa come un macigno su Fratelli d’Italia. Fini è stato, e potrebbe essere, esattamente quello che Meloni non riesce a essere: un ex fascista che si innamora della democrazia, anche a costo di pagare un prezzo elettorale.
E dunque rimetterlo in campo, dandogli un palcoscenico, un linguaggio e un ritmo di interlocuzione con l’attualità, significa porre a Palazzo Chigi un dilemma: o il fondatore di Alleanza nazionale viene cooptato, integrandolo in un inner circle che aggiorna e trasforma forma e contenuti dell’identità meloniana, oppure sarà lui che potrebbe cooptare una parte di Fratelli d’Italia, diventando un bonsai del “governo ombra”, un “come potremmo essere e come vinceremmo ancora” se diventiamo così.
Dalle prime reazioni delle testate di staff del governo, infatti, sembra prevalere il rigetto totale. In questa direzione, si riscopre la vocazione di confine di Annunziata, la sua origine di giornalista-politica del “manifesto”, in cui era stata uno dei quadri più vivaci e dinamici della seconda generazione del giornale-movimento, dopo il gruppo storico di Magri, Rossanda, Pintor. Il primo amore non è mai stato rimosso da Lucia nella sua lunga e prestigiosa carriera giornalistica, che l’ha imposta come inviata di vaglia su tutti gli scacchieri internazionali. Ovunque lei ha mostrato un valore aggiunto, che mancava ai colleghi anche più altisonanti: la visione politica. Una visione che trasformava in racconto e non in predica, rendendo più comprensibili e interpretabili i labirinti dei conflitti globali.
Ora, questo fiuto diventa oggettivamente regia politica. Certo la conduttrice di “Mezz’ora+” non ha programmato di fare la spin doctor di Fini; ma inevitabilmente si trova a un crocicchio dove sta aspettando il resto della politica italiana: chi dopo un eventuale afflosciarsi di Meloni? Una domanda che inevitabilmente carambola anche a sinistra. Una possibile metamorfosi della destra comporta inevitabilmente una trasformazione a sinistra, che non potrà a lungo rimanere accovacciata sulla rendita di posizione della denuncia delle pacchianerie proto-postfasciste della premier.
Si tratta di entrare in campo, contendendo pezzi di base sociale, investendo il ceto medio, e scomponendo quel blocco del Nord ancora raccolto attorno a una visione tardo-liberista. Il legame di Schlein con Meloni torna così reale, e non solo simbolico: due donne che capeggiano organizzazioni che non possono rimanere eguali a quelle che le hanno elette. Un rischio per tutti.