Si può insistere finché si vuole sulla questione dell’“antifascismo” del governo Meloni, dei La Russa e degli altri, senza cavare un ragno dal buco. Neanche Fini era riuscito, a suo tempo, a dichiararsi antifascista (prima di berlusconizzare completamente il partito e di scivolare poi, ormai accortosi dell’errore, sulla buccia di banana della corruzione), asserendo che sarebbe stato chiedere troppo ad Alleanza nazionale. Però c’è da dire che il neofascismo era già un postfascismo: nel senso che, lasciatasi alle spalle la lugubre vicenda di Salò, Almirante e i suoi avevano accettato di operare nel sistema parlamentare, facendo da scendiletto alla Democrazia cristiana, come si diceva all’epoca, e ai suoi giochi sottobanco – anzi, in qualche caso, come quello del governo Tambroni del 1960, nemmeno sottobanco. Fu la doppiezza missina: da un lato si incitava al “coraggio” nelle piazze – e ciò significava aggressioni continue ai militanti di sinistra –, dall’altro, in nome di un anticomunismo radicale, si cercava di spingere la Dc il più possibile a destra.
C’era anche un’altra doppiezza. Se si fosse verificato un colpo di Stato militare, con i servizi “deviati” e l’appoggio della Cia, allora i manovali del terrore, un po’ fuori e un po’ dentro all’Msi, sarebbero venuti allo scoperto e si sarebbero inseriti nel gioco. Personaggi come Pino Rauti (che per un tratto fu anche segretario del partito) tenevano i rapporti, oscillando tra Montecitorio e i gruppi più estremi. È stata questa la storia di una destra, che si vuole oggi democratica, e fu stragista e golpista fino a quando c’era l’Unione sovietica, il babau da cui si doveva difendere la nazione. Successivamente, con l’anticomunismo venuto a esaurimento, bisognava pur trovare qualcosa pe’ campá: e allora ecco la difesa dell’identità dall’invasione straniera. Cosa sarebbe oggi la destra estrema senza lo spauracchio della “sostituzione etnica”? Al complotto giudaico-massonico si è sostituito quello di Soros – ma all’incirca siamo lì. La differenza tra il postfascismo di ieri e quello di oggi è data soltanto da un elemento: in mezzo c’è stato il berlusconismo, cioè la peggiore esperienza politica che il Paese abbia vissuto dopo quella del fascismo vero e proprio.
Senza il berlusconismo, infatti, niente Meloni. È stato Berlusconi il primo presidente del Consiglio del tutto estraneo al 25 aprile. La stessa grande idea di presentare la festa della Liberazione come “festa della libertà” – togliendole l’odore di guerra civile, implicita nel ricordo della vittoria sul nazifascismo – non è altro che un’uscita berlusconiana, una delle tante barzellette, se si vuole, del tycoon prestato alla politica per la difesa a oltranza dei propri interessi, dopo la caduta del sistema di potere del cosiddetto Caf (Craxi-Andreotti-Forlani).
Divertente che, rifacendo la storia a suo uso e consumo, Meloni abbia potuto ricordare come un momento centrale, nell’accreditamento di quella destra di cui è l’erede, l’amnistia voluta da Togliatti in quanto ministro della Giustizia. Fu un errore, da parte del leader comunista? Sì e no. Si può comprendere, infatti, che si volesse avviare un processo di decongestionamento dalla violenza che aveva attraversato il Paese; ma, rispetto a come le cose si svolsero successivamente, con la ricostituzione nei fatti di un partito fascista, si può dire che quel provvedimento di clemenza fu se non altro troppo esteso. Si pensi che un Renato Ricci, capo della Guardia nazionale repubblicana a Salò, condannato a trent’anni di carcere, in virtù dell’amnistia ne venne fuori già nel 1950. Uno così, per i rapporti stretti intrattenuti con i nazisti e con Himmler in particolare, nella Francia di De Gaulle, sarebbe stato fucilato.
Patrioti? È la parola ambigua che Meloni e soci vorrebbero rilanciare. In Francia il gollismo fu patriottico – ma lo erano anche Pétain e i suoi seguaci, volendo evitare, grazie all’accordo con Hitler, guai maggiori alla patria. Perfino i Gap (proprio loro, quelli di via Rasella), che erano combattenti comunisti, si definivano “gruppi di azione patriottica”. Non c’è dunque ragione di scomodare la vecchia partigiana della brigata Osoppo (in parte monarchica) per sentir dire a qualcuno, che fu nella Resistenza, che si sentiva un patriota. Tutti patrioti a seconda delle prospettive e delle circostanze. Anche ora gli ex missini lo sono, ora che difendono strenuamente il “made in Italy” e i confini della patria dai disperati.