La crisi scoppiata in Sudan, il 15 aprile scorso, con violenti scontri, che dalla capitale Khartum si sono estesi al resto del Paese, è il riflesso di una crisi più profonda, di dimensioni regionali. Intanto è una crisi umanitaria, non solo per le centinaia di morti e migliaia di feriti ma – come fa sapere il sindacato dei medici sudanesi – perché buona parte degli ospedali sono colpiti o evacuati sia nella capitale sia altrove. Le agenzie umanitarie internazionali, come il Programma alimentare mondiale (Pam), hanno dovuto interrompere le attività. Alcune ambasciate sono state attaccate, come la Nunziatura apostolica e la residenza dell’ambasciatore dell’Unione europea.
Gli scontri vedono affrontarsi due generali, leader e alleati fino a pochi giorni fa nella giunta militare al potere: Abdel Fattah al-Burahn e Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti. Il primo, presidente della giunta, è a capo dell’esercito regolare ereditato dal regime islamista di al-Bashir; mentre il secondo, uno degli uomini più ricchi del Sudan e vicepresidente della stessa giunta, è a capo di milizie paramilitari della Rapid Support Force (Rsf), create nel 2013, eredi delle milizie janjawid, autrici dei massacri nella guerra civile nel Darfur negli anni 2000. Dopo la caduta del regime, la loro alleanza è stata di pura convenienza, poiché di fatto si trovavano su sponde opposte. Da questo punto di vista, il loro è un conflitto largamente annunciato. Non si può parlare ancora di una guerra civile, perché la popolazione non sta partecipando; e del resto le manifestazioni, anche negli ultimi mesi, chiedevano con forza il ritorno dei civili al potere.
La tregua annunciata per martedì 18 aprile si è rivelata di difficile attuazione, perché quello in corso è un conflitto tra i due uomini forti del Paese. Sono i due titolari delle forze armate che regolano, con l’unico strumento che sanno usare, gli equilibri del potere nel momento decisivo in cui la giunta avrebbe dovuto, secondo l’accordo del 5 dicembre scorso tra i militari e la coalizione delle forze di opposizione, lasciare progressivamente il potere ai civili. L’accordo prevede un periodo di transizione di due anni, la riunificazione di tutti i gruppi armati sotto il comando di un civile (vedi qui). Questo passaggio cruciale si è risolto, come tante altre volte in Africa, in uno scontro aperto tra i militari in campo, in cui i civili fanno figura di ostaggi. Per questo la tregua – invocata dall’Onu e dalla maggior parte delle diplomazie – si è rivelata di difficile attuazione.
L’attuale giunta nacque dal tentativo di soffocare l’ondata di proteste popolari che portarono nell’aprile 2019 alla caduta del regime islamista di Omar al-Bashir (1989-2019), una replica della caduta del precedente dittatore Nimeyri, nel 1985, dopo sedici anni di potere. Le proteste e le rivolte popolari si svolgono in un contesto particolare: in Sudan, al pari di Egitto e Algeria, il potere è da sempre esercitato o garantito dall’esercito, geloso della propria “autonomia” – anche perché controlla una parte consistente dell’economia del Paese. E sono militari quelli che avevano assunto sostanzialmente il potere, l’11 aprile 2019, dopo il rovesciamento di al-Bashir, pur condividendolo con i civili in vista di una transizione, per riprenderlo poi direttamente in mano nell’ottobre 2021, senza peraltro riuscire a porre fine alle manifestazioni. La società civile sudanese, infatti, è particolarmente strutturata, tanto da tenere testa al potere, pur tra mille difficoltà e sotto una violenta repressione. Da sottolineare, in un Paese dove il fondamentalismo islamico è fortemente impiantato, il ruolo delle donne e dei loro movimenti, sempre all’avanguardia nelle proteste degli ultimi anni.
La crisi attuale è anche il portato del contesto regionale in cui il Sudan si trova. Non si può ignorare che i due schieramenti militari in campo sono profondamente influenzati dagli interessi strategici dei Paesi vicini e delle potenze internazionali. La Russia, che dal 2018 è la principale fornitrice di armi all’Africa subsahariana, ha esercitato una forte influenza nel Sudan, formando generazioni di militari. Dal 2017 il gruppo Wagner è presente in Sudan, non solo dal lato della sicurezza ma anche da quello economico. Attraverso la società M Invest, legata ai Wagner, i russi hanno ottenuto una concessione per lo sfruttamento di giacimenti auriferi, appoggiandosi alla locale Meroe Gold. Il gruppo Wagner è anche il principale sostegno militare alle forze del generale Hemetti.
La Russia ha sostenuto prima al-Bashir, al momento della sua messa in stato di accusa dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità e genocidio (in Darfur); dopo la sua caduta, ha continuato a restare a fianco dei militari incoraggiandoli a resistere alle pressioni dei civili. Ha sostenuto, dunque, il colpo di Stato dell’ottobre 2021 e ha impedito al Consiglio di sicurezza dell’Onu di condannare la giunta al potere. Non sembra però, in questa fase, voler prendere posizione apertamente per uno o l’altro degli schieramenti. L’obiettivo strategico è quello di dar corso all’accordo per una base sul Mar Rosso, a Port Sudan, prima stipulato e poi sospeso.
Gli Stati Uniti sostengono invece la transizione verso un governo civile; il presidente Trump aveva convinto la giunta militare-civile, nel gennaio 2021, prima del colpo di Stato, a firmare i Patti di Abramo e a normalizzare le relazioni con Israele. Dopo il colpo di Stato, gli Stati Uniti hanno sospeso un fondo di aiuti economici per settecento milioni di dollari; questa è diventata per Mosca l’occasione per impedire agli americani di riprendere la propria influenza sul Paese. Del resto Washington aveva messo il regime di al-Bashir nella lista nera dei Paesi che sostenevano il terrorismo.
Inserito nel mondo arabo-musulmano, il Sudan è osservato speciale dal vicino Egitto e dalle monarchie del Golfo, soprattutto Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti. La “triplice alleanza regionale” aveva fortemente sostenuto i militari dopo la cauta di al-Bashir, temendo che la protesta popolare rimettesse in discussione l’esistenza di regimi autocratici, come avevano tentato di fare le rivolte popolari del 2010-11 nel Nord Africa. Per questo l’Egitto di al-Sisi si è risolutamente schierato contro il processo di transizione verso un governo civile e, nella contesa tra i due leader sudanesi, sembra più vicino al generale al-Burhan. Gli Emirati appoggiano invece, per ragioni ideologiche, il generale Hemetti, più decisamente schierato contro gli islamisti che hanno ancora influenza nel Paese e nell’esercito regolare di al-Burhan.
Il Sudan è in conflitto anche con l’Etiopia, sia per la grande diga della Rinascita sul Nilo blu, sia per la regione di al-Fashaga, triangolo di terra conteso alla frontiera tra i due Paesi. Dopo la caduta di al-Bashir, il Sudan si è decisamente schierato a fianco dell’Egitto nella disputa con Addis Abeba, che ha fatto della diga sul Nilo blu il volano del proprio sviluppo, ma che inquieta il Cairo che si vede privato di una parte delle risorse idriche del grande fiume africano. Impegnato nella secessione del Sud Sudan, al-Bashir aveva lasciato che la regione di al-Fashaga (250 kmq di terre fertili) fosse occupata dalla popolazione etiopica e difesa dall’esercito di Addis Abeba. Con lo scoppio della guerra in Tigrai, l’esercito etiopico ha dovuto concentrare le proprie forze per domare la rivolta tigrina, e Khartum ne ha approfittato per riprendere il controllo sulla terra contesa. Chiunque vada al potere a Khartum è anche di questo scenario regionale e internazionale che dovrà tenere conto.