
“Perché non si ribellano?”. Così titolava un celebre articolo del finire degli anni Settanta che rifletteva sulla condizione dei lavoratori poveri del terzo mondo. Mutate le cose da cambiare, potremmo riproporre questo interrogativo per il caso italiano. Solo qualche dato: secondo il recente rapporto 2022-23 sui salari della Ilo (l’organizzazione internazionale del lavoro), l’Italia è uno dei pochi Paesi in cui i salari reali abbiano registrato livelli inferiori nel 2022 rispetto al 2008. Negli altri principali Paesi europei è successo il contrario: in Spagna i salari medi sono aumentati del 6%, in Francia del 31% e in Germania del 34%.
La stagnazione salariale dura da decenni: l’Italia è pressoché ultima tra i Paesi dell’eurozona, con una riduzione del potere d’acquisto dei redditi da lavoro del 2,9% negli ultimi vent’anni. Una cifra impressionante, 4,5 milioni di lavoratori, guadagnano meno di 9 euro lordi l’ora, il che vuol dire salari netti mensili intorno o sotto i mille euro. Si concentrano in settori quali la logistica, la ristorazione, il turismo, i beni culturali e l’assistenza alle persone. Sotto i 9 euro stanno il 38% dei giovani, il 16% degli over 35 anni, il 21% degli uomini e il 26% delle donne. Non a caso crescono i working poors, coloro che, nonostante un regolare contratto, non riescono a uscire dalla povertà, stimati oggi, secondo quanto riporta Eurostat, intorno al 12% dei lavoratori italiani. E ad affollare le file dei poveri che lavorano non sono solo i titolari di contratti precari; lo scarto tra costo della vita e retribuzioni è tale che si può essere in questa condizione anche con un contratto a tempo indeterminato.
Molto è stato scritto sulle cause di questa situazione (anche su “terzogiornale”, vedi qui): si è parlato di frammentazione del mercato del lavoro, che utilizza, in alcuni settori, il salario e la flessibilità come una leva di competizione, si è messo l’accento sulla inadeguata dinamica della produttività del lavoro, che non permette in molti casi distribuzione di ricchezza, si è insistito su una competitività internazionale delle aziende giocata sulla compressione dei salari in mancanza di ricerca e innovazione tecnologica. Responsabilità e colpe sono state attribuite anche al sindacato, incapace di avanzare rivendicazioni coerenti, diviso sulla battaglia per il salario minimo, drammaticamente inadeguato a fronteggiare un quadro attuale in cui il lavoro è sempre più facilmente precario, fragile, ricattato. La flessibilizzazione del lavoro, perseguita per anni dalla politica, ha contribuito non poco alla costruzione di questo quadro desolante. A tutto questo si aggiunge un cronico ritardo nel rinnovo dei contratti, che si aggira oggi sui tre anni di media. Una vera e propria strategia padronale per abbassare il costo del lavoro, a cui i sindacati fanno fatica a rispondere per la debolezza del loro potere contrattuale: l’Italia è l’unico Paese europeo in cui si indicono scioperi non sul merito della trattativa, ma per chiedere che essa cominci. Chi può e ha qualche talento da vendere se ne va: i giovani che, come si diceva una volta, “votano con i piedi” emigrando, sono in aumento, si valuta che siano raddoppiati negli ultimi quindici anni, e sono soprattutto quelli che hanno qualifiche alte.
Il nodo, in sostanza, è rappresentato dalle scelte produttive degli ultimi decenni: il tessuto produttivo e imprenditoriale italiano ha consapevolmente preferito specializzarsi in settori a bassa produttività, in cui in ogni caso l’estrazione dei profitti non è mai stata messa in dubbio, grazie alla possibilità di ridurre o non aumentare i livelli salariali. La macchina di sfruttamento, così strutturata, potrà continuare a funzionare anche se i salari dovessero scendere al di sotto della soglia di povertà e sussistenza? L’impressione è che le imprese, se non verranno frenate, continueranno a trovare un incentivo nell’incrementare l’attività in questi settori a bassa produttività, a scapito di quelli maggiormente produttivi, in cui i salari sono più elevati. La tendenza, se non governata, non si arresterà da sola. Sono dinamiche già ben studiate nell’America di inizio millennio: la caduta del salario minimo reale, negli Stati Uniti dalla fine dei Settanta del Novecento in poi, è stata in quel periodo strettamente legata a un’espansione dell’occupazione nei settori più poveri, e solo con interventi successivi e dopo una stagione di lotte i salari americani hanno ricominciato a crescere.
D’altro canto, quanto è avvenuto si rispecchia nella distribuzione della ricchezza nel nostro Paese, sempre più concentrata in poche mani, come mostra in dettaglio il rapporto “Disuguitalia” di Oxfam.
Con una inflazione al 12% che riduce ulteriormente retribuzioni già scarse, con l’infuriare delle bollette energetiche, il potere d’acquisto si riduce sempre più. La battaglia per il “salario che non c’è” dovrebbe quindi teoricamente scatenarsi, anzi avrebbe dovuto già da tempo essere avviata. Eppure non si intravedono per il momento movimenti sociali di largo respiro all’orizzonte: esistono certo lotte operaie consistenti, che sono però circoscritte e localizzate in alcuni settori, come la logistica. A rendere la palustre situazione italiana ancora più sorprendente, sotto questo punto di vista, è il fatto che gli ultimi mesi hanno fatto segnare in tutta Europa un robusto risveglio della conflittualità e una rinascita dell’attività delle organizzazioni sindacali, dalla Germania al Regno Unito, alla Grecia, per non parlare della Francia, ancora nell’occhio del ciclone. Il mistero su questo per nulla minaccioso silenzio delle masse italiane permane – e nessuna spiegazione razionale finora avanzata convince completamente: si è insistito su forme di welfare familiare sostitutivo, su integrazioni più o meno occulte dei salari mediante lavoretti e lavoro nero, sulla disarticolazione della classe operaia in sempre più lavori particolari che renderebbe difficile ritrovare l’unità di classe.
Certo, sarebbe forse utile riflettere anche sulla introduzione progressiva di forme di governance della miseria e di riproduzione della ineguaglianza, basate su tecniche di comunicazione politica mirate a disautorare e a privare di voce e potere il dissenso. Chi si oppone a quella che è l’unica via praticabile è messo in ridicolo e marginalizzato, o criminalizzato. Ma si può veramente pensare che sia possibile impedire che i conflitti esplodano in lotte aperte unicamente in virtù del controllo sociale, esercitato mediante tecniche di seduzione-oppressione? Ne parlava Zygmunt Bauman, in quello che rimane forse il suo libro migliore, Memorie di classe, in cui sosteneva che il proletariato inglese aveva ottenuto le conquiste maggiori quando era già uscito dalla condizione iniziale di schiacciamento e di sudditanza, ed era riuscito a sottrarsi alla morsa del controllo. Finché i rapporti di forza erano completamente sfavorevoli, le conquiste erano minime… Chissà che non avesse ragione.