Immaginiamo per un attimo di essere nati a Kabul, nell’Afghanistan devastato da decenni di guerra o a Niamey, capitale del derelitto Niger, dove quasi metà dei bambini ha problemi di crescita, il 15% soffre di malnutrizione acuta, la mortalità infantile sfiora il 25% entro i quattro anni di età. O ancora di essere cittadini nepalesi, angolani, cambogiani, yemeniti: immaginiamo cioè di far parte di un elenco di 46 nazioni meno sviluppate, quelle che l’Onu definisce “Least Developed Countries” (Ldc), popolate nel complesso da un miliardo e centomila persone (per la precisione: più del doppio della popolazione europea, un ottavo abbondante del totale degli abitanti del pianeta).
Bene, se conoscessimo il cosiddetto mondo occidentale, che spesso ama definirsi “comunità internazionale” confondendo la parte con il tutto, dovremmo completare il pensiero prendendo atto del fatto che non contiamo nulla e che il nostro destino interessa molto poco alle opinioni pubbliche e alle istituzioni dei Paesi maggiormente sviluppati. Questa, perlomeno, è la sensazione che si ricava sia scorrendo i siti delle principali testate internazionali sia compulsando le maggiori rassegne stampa istituzionali italiane alla ricerca di cronache e analisi su Ldc5, la grande conferenza internazionale che si è tenuta dal 5 al 9 marzo del 2023 a Doha, in Qatar.
Il fantasma di Doha
In effetti, una labile traccia del solenne evento che ha riunito in Qatar i rappresentanti di circa 150 Paesi si può trovare nella nota stampa diffusa successivamente all’incontro del segretario dell’Onu Antonio Guterres con i leader europei (qui il testo integrale). Da Bruxelles fanno sapere che “il Consiglio europeo ha ribadito il suo impegno a favore dell’Agenda 2030 e dei suoi obiettivi di sviluppo sostenibile. I leader e il segretario generale hanno accolto con favore i risultati della quinta conferenza delle Nazioni Unite sui Paesi meno avanzati tenutasi a Doha (…)”. Pur senza voler smorzare l’entusiasmo dei leader europei per i risultati della Conferenza, è utile ricordare che sull’impegno internazionale per i Paesi meno sviluppati è stato adottato nello scorso decennio l’Ipoa (“Istanbul Programme for Action” delle Nazioni Unite).
“I Paesi meno sviluppati – si leggeva nel documento originale – continuano a essere vulnerabili a una varietà di shock, comprese le crisi alimentari, del carburante, finanziarie ed economiche e i disastri naturali, e devono affrontare le sfide poste dal cambiamento climatico e, in alcuni casi, dai conflitti che hanno eroso alcuni dei progressi in termini di sviluppo che avevano ottenuto nel passato. Garantire una crescita economica e uno sviluppo equo, inclusivo e sostenibile nei Paesi meno sviluppati richiede la costruzione della loro resilienza per resistere alle crisi e alle sfide emergenti e all’impatto del cambiamento climatico”. Ma è sempre l’Onu a certificare, nel documento ufficiale che ha fatto da base ai colloqui di Doha, che “quasi dieci anni dopo l’adozione dell’Ipoa, questi problemi sono ancora una realtà. Come osservato nell’edizione 2018 del rapporto ‘Lo stato dei Paesi meno sviluppati’, gli shock emergenti, come il cambiamento climatico, si aggiungono agli shock esistenti e pongono diverse sfide allo sviluppo sostenibile nei Paesi meno sviluppati, mentre le risposte globali non hanno eguagliato l’entità delle sfide che creano”.
Una ulteriore zavorra che pesa su quel miliardo dimenticato di persone è quella dei conflitti armati che – si legge nel rapporto – “possono minare, o in alcuni casi danneggiare sostanzialmente, le istituzioni locali e le strutture governative”, causare “spostamenti interni o internazionali, compresi quelli di rifugiati”, e creare frontiere “porose” che “possono anche esacerbare il traffico illegale di persone e merci”.
L’Italia in Qatar per Expo e gas
Insomma, nero su bianco per le Nazioni Unite, i conflitti non pesano solo sui territori che sono investiti direttamente ma hanno riflessi globali, del tipo che a parole tutti dicono di voler affrontare. Migranti, rifugiati e tratta di esseri umani, come sappiamo, sono temi cari alla coalizione attualmente al governo in Italia, almeno nella retorica utilizzata per giustificare le linee guida molto aggressive sul tema (mitizzato) della difesa dei confini nazionali. A occuparsi del miliardo di persone oggetto dell’evento in Qatar, il governo ha destinato la sottosegretaria agli Esteri Maria Tripodi, curriculum tutto interno a Forza Italia, non rieletta nel 2022 alla Camera, e perciò destinata alla Farnesina al supporto dell’agenda del ministro berlusconissimo Antonio Tajani.
In una intervista alla rivista online “Formiche.net” (vedi qui) la rappresentante del governo Meloni ha provato a sbandierare i successi della sua missione, parlando, come vuole la regola dell’oste, di “ruolo da protagonista” dell’Italia e dei temi da affrontare nella cooperazione allo sviluppo: “lotta ai cambiamenti climatici, ambiente, sviluppo sostenibile e immigrazione. Proprio su questo ultimo punto ho riscontrato grande interesse da parte di diversi Paesi, in merito alla proposta del ministro Tajani di un piano Marshall europeo per l’Africa. Cento miliardi, con una strategia di crescita capace di fermare le partenze. Contenente una serie di accordi con Libia, Tunisia, Marocco, Niger e altri Paesi sub-sahariani. Un modello di cooperazione che ebbe straordinario successo sotto il governo presieduto da Silvio Berlusconi, dove furono azzerati gli sbarchi salvando migliaia di vite”. In attesa che il governo Meloni – che sulla cosiddetta emergenza sbarchi ha rispolverato addirittura lo stato di emergenza così aspramente criticato dall’opposizione in altre e più drammatiche circostanze – si avvii a ripetere lo “straordinario successo” del governo Berlusconi, nel resto del resoconto della sottosegretaria a “Formiche” si parla di gas dal Qatar, degli interessi che nel Paese mediorientale coltivano l’ingegneria, la cantieristica e l’industria della difesa (cioè delle armi) italiane, di Salone del mobile di Milano e del progetto di Expo Roma 2030. Priorità evidentemente non meno sentite dall’esecutivo di quanto lo siano i destini dei Paesi meno sviluppati, con il loro carico di sofferenze umane.
Eppure la conclusione del documento dell’Onu non lasciava dubbi: non bastano, si legge, i “programmi generali rivolti a sostenere i Paesi in via di sviluppo”, sono necessarie invece “speciali misure supplementari per aiutare a superare gli svantaggi che limitano la capacità dei Paesi meno sviluppati di svilupparsi in modo sostenibile”. Il sedicente nuovo Piano Marshall, di cui parla Tajani, o il Piano Mattei caro a Giorgia Meloni, sembrano più che altro slogan, drammaticamente inadeguati alla dimensione del problema. Ma del resto, come si diceva all’inizio, il tema ha così poco appassionato la stampa italiana e internazionale (almeno sul versante occidentale del discorso pubblico) che probabilmente nulla è destinato a cambiare nel breve-medio periodo.