“E perciò è pressoché certo, già da ora, che si separeranno dopo le elezioni, dando così ulteriore prova del loro opportunismo”. Renzi e Calenda stanno in queste ore confermando quello che scrivevamo in chiusura dell’editoriale del 24 agosto 2022, alla vigilia delle elezioni (vedi qui): di essere l’uno il furbone e l’altro lo scioccherellone che abbiamo imparato a conoscere. Noi che pure siamo un giornale “terzo” (nel senso che presupponiamo lettori informati, i quali di quotidiani ne abbiano già scorsi un paio quando arrivano sul nostro sito) non ci intendiamo affatto di “terzo polo” (che sarebbe piuttosto un quarto, stando al numero dei blocchi elettorali in corsa nella consultazione del settembre scorso); in compenso, però, sappiamo bene che cosa sia il trasformismo e cosa significhi la vecchia espressione “fare il gioco della destra” – attività in cui la strana coppia si è specializzata. Il loro sarebbe un partito che non è stato ancora inventato e di cui, nel caso, potrebbero rivendicare l’esclusiva: il partito “bi-personale”. La domanda adesso è: se non si separeranno, anche perché le loro percentuali sono quelle che sono, se per necessità rimanessero ancora insieme, la brevetteranno questa forma evolutiva bipede del partito personale, quello capace di camminare sulle teste di due ego anziché di uno solo?
Al di là delle beghe intorno ai soldi e alle procedure per arrivare allo scioglimento dei rispettivi partitini, le differenze tra i massimi improvvisatori della scena politica italiana sono abbastanza marcate. Renzi è essenzialmente un democristiano manovriero: un po’ di qua, un po’ di là a seconda delle convenienze del momento. Nel 2018, per esempio, mai con i 5 Stelle (dando oggettivo spazio alla propaganda anti-immigrati di Salvini al governo). Nel 2019, sì ai 5 Stelle e a Conte, ma poi, dopo il periodo peggiore della pandemia, no a Conte e sì a Draghi. Alla fine, tra le molte giravolte e una scissione (dal Pd), Renzi si era ridotto al lumicino. L’alleanza con Calenda lo ha salvato dalla morte politica: difficilmente, senza il compare, sarebbe arrivato a superare lo sbarramento del 3%.
Ora che cosa accade? Molto semplicemente che Berlusconi è più di là che di qua, e Renzi sente odore di eredità: così si ricicla come direttore di un giornale (lui che a stento sa tenere la penna in mano ed è piuttosto avvezzo all’affabulazione orale che, con le conferenze internazionali, gli sta pure fruttando un sacco di quattrini), e soprattutto pensa di essere lui – lui in persona – il predestinato a ricevere i voti che dovrebbero squagliarsi da Forza Italia dopo la morte del capo. L’appuntamento da non perdere, allora, sarà quello delle europee del 2024. A cui Renzi, è chiaro, preferirebbe andare da solo per contarsi (con una soglia comunque al 4%), o al massimo “in federazione” con Calenda, non ancora con il partito unico e non si sa, poi, con quale leadership. Insomma appare ormai finita, per Renzi, la tattica del “farsi da parte”, lasciando spazio a Calenda.
Qua il furbone non può che scontrarsi con la presunta serietà dello scioccherellone. Calenda ci tiene a far vedere, infatti, che il loro progetto non è unicamente l’alleanza tra due ego, ma qualcosa come un’innovazione politica. Se Renzi tende a sostituirsi sic et simpliciter a Berlusconi (lo avrebbe mostrato, del resto, già contribuendo alla elezione di La Russa alla presidenza del Senato, segnalando in questo modo la sua voglia di collaborazione), Calenda vorrebbe sembrare quello che va oltre il berlusconismo. I suoi opportunismi – essersi fatto eleggere al parlamento europeo con il Pd per andarsene via subito dopo, avere sottoscritto un patto con Enrico Letta e averlo disdetto il giorno seguente, avere fregato Emma Bonino presentandosi nel suo stesso collegio senatoriale – sarebbero tutti nella prospettiva superiore e altamente meritoria di una coerenza rivendicata come marchio di fabbrica. E può perfino essere che Calenda ci creda davvero.
Post-scriptum (14/4/2023) – Stando alle ultime notizie, la rottura tra Renzi e Calenda sarebbe definitiva. Ma sarà così? Il problema, per chi cerca spazio al centro, è da decenni quello di un’area che non supera il 10% (la percentuale a cui arrivò Monti, con la sua lista e le sue mini-alleanze, nel 2013). La nostalgia di una Balena bianca democristiana, coltivata in passato dai Mastella e dai Casini, oscillanti un po’ a destra e un po’ a sinistra, è servita al massimo alla loro sopravvivenza politica personale. Perfino il vero “terzo polo” grillino, le cui fortune iniziali vennero proprio dalla erosione degli elettorati contrapposti, non è in seguito riuscito a sfuggire (come sarebbe stato nelle intenzioni di Casaleggio) alla questione delle alleanze. Sul versante di un centrosinistra spostato al centro finché si vuole, è evidente che nessuna “vocazione maggioritaria” è mai riuscita a sfondare. Dunque, da qualsiasi parte la si guardi, tanto meno dalla posizione “centrale” a cui ambirebbero Renzi e Calenda, la politica italiana tende da decenni ai blocchi elettorali (soltanto l’introduzione di una legge elettorale integralmente proporzionale potrebbe mutare questo dato di fatto). La conclusione è che, di riffe o di raffe, i due pretendenti neocentristi, se non vorranno sparire, dovranno riallearsi tra loro – ma non nelle europee del 2024, in cui sarà più opportuno contarsi. In proposito, Renzi spera anche nel tornaconto della possibile scissione della parte centrista del Pd. Ma il calcolo potrebbe essere sbagliato: perché quella componente politica, che nei desiderata renziani sarebbe da attrarre al pari dei berlusconiani, si staccherà dal Pd più probabilmente dopo le europee anziché prima.