A un anno dalla condanna all’ergastolo in primo grado di Paolo Bellini, “quinto uomo” della strage di Bologna del 2 agosto 1980 (ottantacinque morti e oltre duecento feriti), sono arrivate le motivazioni della sentenza della Corte di assise: un documento imponente, come ci si aspettava, perché il giudice non deve solo dare conto di quella pesante condanna – schiaccianti del resto le prove a carico di Bellini, uomo di Avanguardia nazionale, ponte con i gruppi mafiosi. Il documento con cui Francesco Caruso, presidente della Corte (composta inoltre da Massimiliano Cenni – giudice –e dai giudici popolari: Luigina Pozzato, Adriana Valdisserri, Bruno Grandi, Anna Maria Lambertini, Giovanni Occhipinti, Pierpaolo Conti), spiega anche perché l’impianto complessivo del lavoro investigativo della procura generale, che va molto al di là della figura di Bellini, sia stato ritenuto valido.
Il documento si profila come un pezzo di storia del Paese, nel frangente a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, che racconta come agì allora un blocco di potere occulto, che saldò l’alleanza (non inedita) tra la P2 di Gelli e i neofascisti: è dunque un atto giudiziario che stabilisce dei fatti e usa il metodo della storia per dare una ferrea consistenza logica alle ipotesi accusatorie, così da definirle reali. Si legge che “la circostanza che tutti i soggetti indicati come mandanti-finanziatori e mandanti- organizzatori non siano tecnicamente imputati (Licio Gelli, Umberto Federico D’Amato, Umberto Ortolani e Mario Tedeschi, ndr) e che tali non possono considerarsi sotto alcun profilo giuridico penale comporta che nei loro confronti nessun giudizio di responsabilità penale debba essere pronunciato. Sul piano storico resta il problema di come interpretare e legare una storia che è politica e criminale al tempo stesso, in un Paese a ‘sovranità̀ limitata’ nel quale frange di forze armate, di forze dell’ordine e del mondo politico non si sono riconosciute pienamente nella democrazia costituzionale. La vicenda della P2, le successive stragi (anche dopo il 1980), ci consegnano una democrazia permanentemente instabile”.
Insomma, mentre i fatti si fanno più lontani nel tempo, restano parte della nostra cronaca: è una delle conseguenze dell’anomalia del nostro Paese, che oggi si trova a dover fare i conti con una sentenza che spiega quel pezzo di strategia della tensione attuata in quello scorcio del Novecento. Fino a oggi, le condanne dei neri Fioravanti, Mambro e Ciavardini (si è aggiunto solo in primo grado Cavallini) erano rimaste appese a un filo invisibile, senza un quadro che le spiegasse, rendendone comprensibile il contesto non solo alla maniera di Sciascia, ma anche molto concretamente. Nell’inchiesta condotta sulla base dei numerosi e robusti spunti forniti dalla Associazione delle vittime, e dal motivato pool di avvocati che la sostengono, è emerso con forza l’interesse di Licio Gelli – già finanziatore dell’operazione terrore sui treni organizzata in Toscana dalle cellule ordinoviste locali prima della strage dell’Italicus (agosto 1974) – nel contrastare l’evoluzione democratica del Paese, e la sua pretesa di prendere a ogni costo il potere. La prova regina è in alcuni documenti finanziari – tra i quali il “documento Bologna” di cui vi abbiamo parlato (vedi qui) – che provano il passaggio di denaro, quindici milioni di dollari presi al banchiere Roberto Calvi, con la scusa che servissero per dirottare i processi contro di lui. Eppure: “La storia giudiziaria di Licio Gelli” – si legge – “dimostra che l’iniziativa assunta nei confronti del Calvi fu essenzialmente un bluff, come evidenziato dall’autorità̀ giudiziaria di Roma nel procedimento sulla loggia massonica P2, con la sentenza del 16/4/1994, che ritenne responsabile il Gelli del delitto di cui all’art. 346 c.p. per aver millantato credito presso l’autorità̀ giudiziaria di Milano ai danni di Roberto Calvi (reato commesso, secondo la contestazione, dall’estate del 1980 alla primavera del 1981)”.
Dunque: proprio il fatto che Gelli non usò i denari in quel modo, è una delle prove del loro dirottamento a favore di operazioni che portarono soldi nei conti di due uomini chiave della trama bolognese: Umberto Federico D’Amato e Mario Tedeschi, tramite il factotum di Gelli, Marco Ceruti. Entrambi piduisti, il primo si è autodescritto così in una “Memoria” scritta per la procura di Brescia: “Federico Umberto d’Amato partecipò alla Seconda guerra mondiale collaborando in giovanissima età̀ con l’OSS, conoscendo anche i suoi fondatori il Gen. Donovan ed Allen Dulles. Fu insignito della massima onorificenza, la ‘Medal of freedom’, e, nei successivi quarant’anni, è stato collaboratore della Cia. In particolare, fu in fraterna amicizia con James Angleton, il mitico capo del controspionaggio americano. Nell’84 ebbe riconoscimento finale come l’uomo la cui opera in difesa della libertà non sia mai dimenticata. Nello stesso periodo, fu prima addetto e poi capo dei Servizi di sicurezza italiani, reggendo l’incarico nei cosiddetti anni di piombo del terrorismo italiano e internazionale”.
D’Amato, protagonista di una parte del Novecento italiano, è stato soprattutto un uomo della Nato. I soldi sono di sicuro arrivati a lui come dimostra l’“appunto Bologna”(distinto dal“documento Bologna” contrassegnato dall’indicazione iniziale “Bologna-525769-X.S.”),in cui è descritta l’erogazione finanziaria “a soggetti che risultano ragionevolmente identificati in Federico Umberto D’Amato e in Mario Tedeschi, non solo iscritti entrambi alla P2, ma uomini collocati sul finire degli anni Settanta al vertice del potere pubblico”. Secondo la procura generale, e la Corte, il pagamento del prezzo di un appartamento di D’Amato a Parigi (trecentomila franchi francesi, pari all’epoca a circa cinquantasette milioni di lire) ha coinciso temporalmente con il primo versamento effettuato a favore di D’Amato da Gelli e Ortolani. Si tratta della somma di 294.000 dollari che, secondo l’appunto denominato “Memoria”, costituivano un acconto della maggior somma di 850.000 dollari destinata a “ZAF”, richiamata anche nel “documento Bologna”: dove “ZAF” è stato identificato in D’Amato, raffinato cuoco (l’intero capitolo 3.5, intitolato “Giallo zafferano”, è dedicato alla materia).
Inoltre: “Le indicazioni ‘DIF MI e DIF. Roma’ sul documento Bologna svelano dunque la ragione per cui Roberto Calvi fu indotto a versare quindici milioni di dollari al Gelli e al suo cassiere e prestanome Marco Ceruti; svelano, inoltre, che la reale destinazione dei fondi (o, quanto meno, di una significativa parte di questi) non va ricercata nella loro apparente causale, ma nella intestazione del documento con cui il Gelli espressamente collegò quei movimenti finanziari alla città di Bologna, e ciò fece, presumibilmente, per farne rendiconto ad Umberto Ortolani, suo socio nell’operazione, per memoria personale, nonché come strumento di ricatto”.
Quando e come furono dati i soldi ai neofascisti esecutori della strage? Non ci sono prove dirette di questo, ma la Corte bolognese non lo considera un dato limitante, facendo ricorso a un metodo logico e di contesto: “per fornire la prova che, prima della strage di Bologna, Marco Ceruti, factotumdi Licio Gelli, abbia avuto contatti con alcuni degli esecutori materiali del grave crimine o con un loro emissario per consegnare loro il compenso in denaro, la procura generale si affida alla constatazione che in un determinato periodo Nar e Ceruti si trovassero a Roma. Resta, tuttavia, come dato indiziante grave, la considerazione che, a partire da un certo momento nella loro difesa, Mambro e Fioravanti hanno cercato di trovare un modo per spostarsi lontano proprio nella giornata del 31 luglio, che è quella in cui ragionevolmente potrebbe essere stata loro consegnata una somma di denaro in contanti. Un tentativo tardivo, abborracciato e fallimentare secondo quanto dimostra anche la sentenza Cavallini, che pure sviluppa le assunzioni più̀ favorevoli alle tesi di Mambro e Fioravanti”.
Come sempre accade, ma stavolta forse anche di più, le motivazioni della sentenza sono un documento importante, che in questo caso non ha il valore di una conclusione. Abbiamo ragione di ritenere che sia solo l’inizio di un percorso di ricostruzione, che avrà – auspichiamo – un ulteriore rilancio in nuove inchieste, come si desume dalle pagine finali del dispositivo di condanna. Nel solo momento di leggerezza concesso nelle duemila pagine si ricorda, a favore dei “cultori della scaramanzia”, che, considerati tutti i giudizi svolti – in primo e in grado di appello, in sede di legittimità e in sede di rinvio e non tenendo conto dei due gradi di giudizio relativi al solo reato di depistaggio, commesso da Carminati e Mannucci Benincasa – “questa Corte di assise è il tredicesimo organo giudicante chiamato a pronunciarsi sulla strage della stazione di Bologna o su temi ad essa connessi”. C’è da ritenere che non sarà l’ultimo.