Ma è davvero così nuova la segreteria faticosamente varata da Elly Schlein? Davvero l’idea di contaminare un partito, mettendo alla sua testa debuttanti cooptati da altre esperienze, a volte non affini se non proprio conflittuali con il partito stesso, è una svolta sorprendente? Se scorriamo i profili del dream team che la segretaria ha presentato, troviamo temi, biografie e metodi che riportano molto indietro nel tempo. Pensiamo alla famosa segreteria Veltroni del Pds (1998). Lì si era nel gorgo della successione di D’Alema a Prodi, quando “Baffino” lasciò il partito al suo storico competitore, sapendo che questo era il modo migliore per non avere impacci al governo. Ora, sovrapponiamo la geografia sociopolitica dell’operazione concepita all’epoca, comparando le provenienze e le competenze di quel gruppo, con l’attuale. Un nome su tutti: Veltroni tirò fuori dal cilindro, responsabile dell’organizzazione, il presidente delle Acli dell’epoca, Franco Passuello: una figura di grande dignità culturale e mitezza di carattere, apprezzato da tutto il fronte delle forze democratiche. Oggi, in quella stessa posizione, troviamo l’ex assessore emiliano, e già dirigente di varie formazioni che hanno polemizzato da sinistra con il Pd, Igor Taruffi. Forse meno mite dell’aclista, ma non meno esterno alle dinamiche dell’organizzazione.
Due marziani atterrati in un campo di cipolle. Di Passuello si persero le tracce quasi subito: l’allora ancora resistente struttura territoriale del partito, di ancora fresca memoria Pci, lo rigettò con affetto ma con determinazione. Vedremo – in una nebulosa senza forma né materia quale è oggi l’articolazione territoriale del Pd, nel vuoto pneumatico di un partito riempito da un formicaio di microaziende personali – cosa potrà accadere. Non meglio, del resto, andò al puzzle che Veltroni tentò di comporre, infilando nel vertice del partito rappresentanti di lontane vicende, come il repubblicano Bogi o il socialista Ruffolo, o anche il “comunista unitario” Crucianelli. Quell’esperienza si sbriciolò sotto la pressione di un governo D’Alema tanto manovriero quanto manovrato – potremmo dire – da convergenze con dubbi personaggi e improvvisati alleati, che ne rendevano insostenibile l’origine tutta parlamentare, senza alcuna ratifica elettorale. In quel passaggio, poi, attecchì il virus delle alchimie emergenziali, che hanno portato la sinistra a governare senza avere ricevuto un mandato popolare: una malattia che ha del tutto sbaragliato gli anticorpi del centrosinistra, riducendolo a una federazione di candidati al governo permanente.
Proprio nel dualismo dei due cavalli di razza, Veltroni e D’Alema, gli eredi del Pci cominciarono a perdere la bussola, cercando ogni volta il colpo di teatro, la scorciatoia con cui rivendicare la permanenza al governo. Siamo in un tornante, nello storico passaggio di millennio, che accelera la trasformazione del Paese, con il rigonfiarsi della società liquida e il frantumarsi delle vecchie identità di massa. L’allegra brigata di Veltroni si trovò isolata nella fortezza Bastiani, senza nemmeno riuscire a vedere l’avversario, che aveva aggirato l’ostacolo puntando al cuore del sistema con l’ennesima resurrezione populistica di Berlusconi.
Nelle riflessioni successive, in occasione della fondazione del Pd, ancora con Veltroni, al Lingotto nel 2008 – o dopo, nelle varie occasioni emergenziali, in cui il partito non riusciva ad afferrare il bandolo di un Paese che mutava troppo rapidamente –, si tornò a concentrarsi sui diversi passaggi di quei tentativi di chirurgia plastica, convenendo che un partito non si cambia prima di costruirlo e non lo si costruisce dall’alto, come ricordava lo storico cattolico Pietro Scoppola.
Oggi ci risiamo, verrebbe da dire. Schlein, in coerenza con il suo manifesto politico appena declamato oralmente, senza lasciare ancora tracce scritte, presenta il vertice di un partito che non c’è. Dove i saperi sono solo stili di comportamento e le strategie niente più che auspici morali. Un partito in cui si entra dalla segreteria (altro che iscriversi da giovane alla direzione del partito, come Pajetta diceva di Berlinguer) per renderlo a propria immagine e somiglianza. Un gruppo dirigente esterno, meglio in outsourcing, a cui si appalta l’efficientamento della struttura, stile McKinsey.
Se, come Schlein aveva annunciato nel suo discorso di insediamento, l’azione del Pd dev’essere quella di colmare i vuoti, di tamponare le ferite, di riparare gli aspetti peggiori del capitalismo – come le paghe da fame, gli annegamenti di massa, e le odiose discriminazioni civili –, serve allora un’organizzazione sportello a cui ci si rivolge per una pratica, non per un conflitto, in cui si architetti la resistenza all’azione oscurantista della destra e si promuova una forma di riprovazione sociale. Un partito Arci, in cui, di volta in volta, tema per tema, stagione per stagione, ci si muove sull’emozione di un insopportabile sfregio alla Costituzione o al senso comune. Neppure un governo ombra – ma l’ombra di un partito. Ognuno si deve occupare di un problema, ma senza che affiorino strategie o si definiscano identità. Quale idea di Paese si intravede? Quale filosofia nella relazione fra città e periferie? Quali interlocutori e priorità si vogliono rappresentare? Sembra che l’ispirazione sia quella di rispondere ai temi via via che si pongono; ma non si sceglie, e tantomeno si elabora, una visione per cambiare l’attuale relazione fra governati e governanti.
In questa logica, vediamo la riduzione delle idee a problemi, e dei problemi a denunce. La formazione viene spacchettata fra scuola e università: non assume il carattere portante di una visione alternativa del modello di sviluppo nazionale, come nella società della conoscenza ci si aspetterebbe da una sinistra dei saperi. La sanità è un dossier, non una strategia di riconfigurazione del welfare nella ricostruzione di un’idea di nuova statualità fra governo centrale e decentramento regionale. “Informazione e cultura” rischiano di essere ridimensionate a un prolungamento della guerriglia antiberlusconiana, senza un mandato ad affrontare l’intera partita della negoziazione sociale e professionale dei linguaggi informatici, che stanno riclassificando, con il decentramento delle intelligenze artificiali, le relazioni sociali del Paese e “si stanno sostituendo a poesia e prosa” – come avvertiva Calvino, già cinquantacinque anni fa, nelle sue conferenze su “cibernetica e fantasmi”.
Tutto questo non senza giovanile furbizia. Non solo mancano i vicesegretari, ma vengono alleggerite le competenze dei dirigenti in crescita, come Marco Sarracino, dato all’organizzazione e relegato invece in una non meglio definita “coesione territoriale”; oppure Marco Furfaro, previsto all’informazione e retrocesso a nebulose “iniziative politiche”. Sembra che si voglia preventivamente disattivare qualsiasi forma dialettica, che possa turbare il salottino emiliano. Non a caso, la segreteria viene annunciata con un collegamento Instagram, non dall’account del partito, ma da quello personale della segretaria. Come faceva a Sanremo Amadeus, scendendo dallo scalone dell’Ariston con Ferragni. Una metafora non frivola.