La prima considerazione è di natura giudiziaria. Subito dopo l’incriminazione, ritornato nel suo pacchiano ritiro di Mar-a-Lago, Trump ha gridato alla luna: persecuzione! Persecuzione politica, giudici politicizzati! Non ha tutti i torti. O meglio, li ha tutti e anche di più, ma la sua invettiva per com’è strutturato il sistema giudiziario americano ha una qualche plausibilità, almeno alle orecchie dei suoi sostenitori. Negli Stati Uniti ci sono fondamentalmente due magistrature, una federale e una statale. I procuratori federali sono nominati dal presidente e durano in carica “a suo piacimento”, mentre i giudici, sempre di nomina presidenziale, durano a vita. A livello statale e di contea, vi sono norme diverse tra Stato e Stato, ma in genere giudici e procuratori vengono o nominati dal governatore o eletti per periodi variabili.
Quando Trump dice che il procuratore della contea di Manhattan, Alvin Bragg, è politicizzato dice un’ovvietà. Bragg è un democratico, è stato eletto in quanto democratico e ha preso il posto di un altro democratico, Cyrus Vance, il quale però aveva deciso di non incriminarlo. Questo è infatti un altro elemento fondamentale del sistema: la discrezionalità. Un procuratore può decidere di perseguire o non perseguire un reato a suo insindacabile giudizio, non solo in base alle prove in suo possesso, ma anche alla “convenienza”, cioè quanto può costare andare a processo, quante risorse può dedicare al caso. E naturalmente, a integrare la discrezionalità, possono anche esserci considerazioni di opportunità politica.
La piccola, per quanto clamorosa, vicenda dell’ex presidente mette in luce un altro aspetto del sistema penale americano: la durata dei processi. Si pensa di solito che in America tutto venga deciso rapidamente e sancito dal martelletto del giudice. Ma guardate ai casi di Trump: i fatti relativi a questa prima incriminazione risalgono a sette anni fa, la prossima udienza sarà tra un paio di mesi, e il processo di primo grado non inizierà prima di un anno. La sentenza arriverà dopo almeno dieci anni dai fatti.
C’è poi la vicenda in cui Trump ha tentato di corrompere un funzionario elettorale della Georgia: è successo tre anni fa, esistono prove inoppugnabili, ma l’incriminazione ancora non è arrivata. Stessa cosa per le carte segrete illegalmente detenute a Mar-a-Lago; stessa cosa per il ruolo di Trump nei fatti del 6 gennaio: a distanza di più di due anni il procuratore federale speciale Jack Smith non ha ancora deciso se e quando incriminarlo.
Il fatto è che in America, come in altre parti del mondo, i processi sono rapidissimi per i piccoli delinquenti presi in flagrante, che vanno subito in prigione (in questo gli Stati Uniti sono molto “efficienti” avendo il più alto numero di detenuti in percentuale e in cifra assoluta al mondo), ma sono lentissimi per le persone importanti, anche dopo che vengano incriminate.
Laseconda considerazione è di natura politico-istituzionale. Trump non si è limitato a gridare alla luna dopo l’incriminazione, ma ha incominciato a muovere la sua imponente e efficacissima macchina di propaganda già prima. Sapendo, o presumendo, di essere incriminato, si è detto: vediamo cosa possiamo tirare fuori di buono da questa cosa. In una settimana ha raccolto una decina di milioni di dollari in donazioni per la sua “difesa legale”, nemmeno fosse un imputato politico indigente stritolato dallo “Stato profondo” (deep state). A Manhattan i funzionari del tribunale gli hanno risparmiato le impronte digitali e le foto segnaletiche, ma lui si è fatto ugualmente stampare una maglietta con la sua foto di fronte e di profilo e la scritta: “non colpevole”, vendendole al prezzo di 35 dollari l’una. Si suppone che andranno a ruba per anni, fin quando durerà il processo. Un ottimo affare!
Tutto ciò è stato reso possibile dal fatto che Trump non è un imputato qualsiasi. È un imputato che è anche un candidato alle prossime elezioni presidenziali del novembre 2024, la cui campagna elettorale è iniziata subito dopo le elezioni legislative del 2022. Negli scandali che hanno accompagnato la presidenza Trump, fino ai due impeachment approvati dalla Camera (ma respinti dal Senato), la stragrande maggioranza dei parlamentari repubblicani lo ha sempre sostenuto contro ogni evidenza, scusando le sue maldestre boutades o le sue affermazioni razziste. Subito dopo l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, si erano levate alcune critiche (dopotutto anche i parlamentari repubblicani erano dovuti fuggire nei sotterranei per aver salva la vita), che sono rientrate rapidamente quando i sondaggi hanno confermato il consenso popolare nei confronti dell’ex presidente.
Naturalmente, dopo la “non-vittoria” del novembre 2022, che gli analisti hanno attribuito a Trump e ai candidati da lui sostenuti, molti repubblicani si sono domandati se dopotutto fosse saggio rimanere attaccati al suo carro per poi finire sconfitti. Così hanno incominciato a fare capolino timidamente alcuni candidati alternativi: il governatore della Florida Ron De Santis, l’ex vicepresidente Mike Pence, l’ex governatrice Nikki Haley. Ma dopo l’incriminazione tutte le teste si sono ritirate per rendere omaggio al capo perseguitato dai cattivissimi democratici.
La ragione è semplice e si chiama primarie. Le primarie sono diverse: aperte (tutti possono votare), chiuse (votano solo gli iscritti a un partito) o miste, ma hanno una cosa in comune: vi partecipano pochissime persone, circa il 10% degli aventi diritto. Chi sono? Sono gli attivisti più fedeli e motivati: il che vuol dire, nel caso di Trump, i suoi sostenitori. E infatti, dagli ultimi sondaggi, è lui quello in testa a tutti i candidati repubblicani, che sono praticamente scomparsi. Naturalmente quel 10% di elettori repubblicani che lo voterà nelle primarie non è garanzia di vittoria nelle elezioni generali. Al contrario, è probabile che una candidatura Trump allontanerà i moderati repubblicani e gli indipendenti. I notabili repubblicani lo sanno benissimo, e vorrebbero liberarsi di lui, ma per il momento non possono, tacciono e si fingono suoi sostenitori.
L’ultima considerazione è la più mesta. La presidenza Trump aveva messo in luce la fragilità del sistema istituzionale americano, che si credeva saldo nei suoi riti democratici. Il Paese è stato a un passo da un colpo di Stato, che non c’è stato per la inconcludenza del personaggio e dei suoi vociferanti sostenitori più che per la presenza di adeguati anticorpi. La sua incriminazione ha messo in luce le lungaggini e la permeabilità alle pressioni politiche del sistema giudiziario; e si è visto come la macchina del consenso filotrumpiano si avvantaggi decisamente di un sistema elettorale (dal finanziamento della politica alle primarie) a rischio di torsione antidemocratica.
Ma non è solo questo. Ciò che più preoccupa è che in questa vicenda sono all’opera profondi principi democratici. Trump non è un leader che ha conquistato (o vorrebbe conquistare) il potere con un manipolo di camicie nere o brune. È un golpista potenziale che vorrebbe (ha annunciato di volere) stravolgere le istituzioni e “superare” la Costituzione, ma grazie al sostegno di quasi la metà dei cittadini americani. Non bisogna dimenticare che Biden ha vinto le elezioni nel 2020 avendo anche la maggioranza del voto popolare, ma Trump ha ottenuto il risultato numerico più alto di qualunque candidato repubblicano. Se l’anno prossimo ci sarà una nuova partita tra i due, è probabile, per i motivi detti, che Biden vinca di nuovo: ma ciò che dovrebbe preoccupare è che quasi la metà del popolo americano al dunque sarebbe pronta a sostenere di nuovo un gaglioffo volgare, corruttore e corrotto, che disprezza le donne e le minoranze, che sostiene gli interessi dei ricchi come lui e costituisce una minaccia immanente per la democrazia americana.
Questo è il vero problema, che già Obama prima, e Biden dopo, hanno provato a risolvere, e che rimarrà tale anche quando, sperabilmente prima o poi, Donald Trump uscirà dalla scena politica.