In queste ore ci sono quelli che di sicuro si stanno dicendo: “Forse ci siamo…”. La morte annunciata del padrone assoluto di Forza Italia, segnato ormai da un’evidente decadenza fisica e psichica, e votato a un preoccupante su e giù dall’ospedale “di famiglia” del San Raffaele (fondato dall’amico don Luigi Verzé, non senza qualche forma di abusivismo edilizio e di probabile malaffare, al punto che il suo collaboratore, Mario Cai, finì suicida nel 2011 per sottrarsi all’inchiesta giudiziaria), è attesa da coloro che pensano di poterne ereditare voti e personale politico. Primo tra tutti, c’è naturalmente Matteo Renzi che, in mancanza di un erede designato (Berlusconi, troppo accentratore, non ha saputo crearsi una “dinastia”, a parte quella familiare), appare da tempo il più autentico successore del “mago di Arcore”. Il quale, con il suo partito personale messo su in quattro e quattr’otto da una costola delle sue aziende, elevò al massimo grado l’intenzione leaderistica che fu già di Bettino Craxi, nel distruggere le correnti interne socialiste, distruggendo così il partito stesso, privo di ricambio nel momento della sua caduta.
Del resto fu proprio Craxi, com’è noto, il più stretto alleato di Berlusconi nella costruzione del suo impero mediatico, arrivando da presidente del Consiglio a produrre un provvedimento ad hoc per sbloccare le antenne televisive berlusconiane poste sotto sequestro dalla magistratura. Ci sono le protezioni politiche, e probabilmente l’appoggio di gruppi mafiosi, alle origini della fortuna di Berlusconi. Il mito dell’imprenditore fattosi da sé, con un piccolo patrimonio lasciatogli dal padre, è una bugia dalle gambe cortissime, sebbene incessantemente ripetuta, nel corso degli anni, dal fondatore di Mediaset – una concentrazione di potere mediatico che non ha uguali nel mondo occidentale, e che nessuno (nessun governo o partito politico) ha mai tentato di ridimensionare. Sicché l’anomalia, come spesso accade in Italia, è diventata normalità.
Come avrebbero potuto anche i grillini dei primi anni ruggenti – nati a loro volta da un’operazione guidata da un’azienda, quella di Casaleggio e associati – essere veramente contrari al berlusconismo, fatti salvi gli accenti “giustizialisti” alla Di Pietro? I 5 Stelle erano sbucati fuori da una logica privatistica analoga, e solo da ultimo, in parte, se ne sono distaccati. Dal populismo televisivo al populismo della rete, si potrebbe dire. Non v’è dubbio, e lo si è visto dalla inesorabile perdita dello smalto elettorale forzitaliota, che l’egemonia edificata da Berlusconi intorno alle tv e alla carta stampata stia cedendo il passo a un altro tipo di costruzione della pubblica opinione, affidata alle nuove tecnologie e ai nuovi, più sottili, mezzi di comunicazione. Ma l’egemonia del Cavaliere (com’era, a tutti gli effetti, prima di perdere il titolo per via di una condanna passata in giudicato), finché è durata, è stata pressoché totale. Perfino gli oppositori della serie Pds-Ds-Pd ne hanno introiettato le coordinate. Il maître à penser Michele Salvati, teorico di una sinistra che va a destra, aveva detto che il Pd avrebbe dovuto assomigliare a Forza Italia, nel senso di un agglomerato liberale centrista.
Ma centrista e liberale Berlusconi non è mai stato. Da ultimo, ha recitato un po’ questa parte per distinguersi nel “destra-centro” dominato da Meloni. E c’è un’indubbia ironia della storia che alla fine sia stata una donna, cioè un’appartenente a quel genere vituperato e sottomesso dal tycoon, avvezzo alle sue yeswomen, a fargli le scarpe nella sua stessa compagine politica. In fin dei conti, però, è anche lei una che gli deve tutto, perché senza Berlusconi il postfascismo non avrebbe potuto nascere, e sarebbe ancora quel semplice neofascismo che a tratti vediamo rispuntare. Berlusconi – ideologicamente parlando – non è nulla, nel senso che può essere qualsiasi cosa, sulla base di una maniera di comunicare che è quella populistica (quasi si tratti di un tardo discepolo di Perón); ma all’atto pratico è stato lo “sdoganatore” della destra estrema, da lui imbarcata a fini elettorali. Ed è proprio questa che alla fine si è politicamente avvantaggiata di un’operazione messa in campo, opportunisticamente, quasi trent’anni fa. Giorgia Meloni e i suoi dovranno fargli un monumento: certo contenti di essersene sbarazzati, ma devoti alla memoria.
Tra le molte morti di Berlusconi, ce n’è una bruciante: non è riuscito a portare a termine il programma che fu già, a grandi linee, quello di Licio Gelli e della P2 (a cui era risultato affiliato), e lascia così il testimone agli attuali governanti postfascisti, che hanno tutta l’intenzione di impiantare una forma di presidenzialismo nel Paese. Lo stravolgimento della Costituzione repubblicana è qualcosa che fu già tentato da una sua precedente maggioranza di governo: ma disgraziatamente il progetto non andò in porto, battuto dal referendum del 2006. Anche sul punto la maggiore formazione della “sinistra” si mostrò in larga misura mimetica nei suoi confronti. Non parliamo di un lontano tentativo di D’Alema, ispirato a una logica del tutto simile; parliamo di uno più recente, messo in campo da quello che abbiamo già definito il miglior successore del berlusconismo, che, sia pure a suo modo, ci provò ancora nel 2016, finendo tuttavia a sua volta sconfitto dal referendum successivo. Mentre cercherà di scompaginare le file parlamentari di Forza Italia, Renzi accompagnerà il probabile feretro preparandosi a dire di nuovo la sua sul “premierato forte”.