Santiago Maldonado aveva partecipato il primo agosto 2017 a un blocco stradale, con i membri di una comunità mapuche, all’altezza del distretto chubutense di Cushamen, in Argentina. La manifestazione era stata violentemente repressa dagli agenti della Gendarmeria. Quella è stata l’ultima volta in cui Santiago è stato visto vivo. Nonostante le forze di polizia lo avessero cercato nella zona, facendo uso di droni, elicotteri e cani, il corpo del ragazzo è stato trovato nel fiume Chubut solo il 17 ottobre 2017, settantotto giorni dopo la sua scomparsa, a quattrocento metri a monte del luogo in cui era stato segnalato. Il referto autoptico stabilì che Santiago era morto per “annegamento per immersione nell’acqua del fiume Chubut coadiuvato da ipotermia”, e che era rimasto “sempre sotto l’acqua e non in un altro mezzo”. Non furono riscontrati lividi o traumi associabili a una morte intenzionale. La sua scomparsa ha scioccato il Paese, diventando in breve uno dei principali argomenti di dibattito pubblico durante l’amministrazione dell’ex presidente Mauricio Macri.
Sergio Maldonado ha quarantanove anni, è il fratello maggiore di Santiago. La sua morte gli ha cambiato la vita. Da allora in poi, non ha smesso di denunciare le tante irregolarità verificatesi durante l’indagine, e instancabilmente porta avanti la sua battaglia per la verità. Ci siamo incontrati nel patio del Cabildo, di fronte alla Casa Rosada a Buenos Aires, in attesa di partecipare entrambi alla “ronda” settimanale delle Madri de Plaza de Mayo.
Di cosa ti occupi e come ha influito la vicenda di tuo fratello sulla tua vita?
Prima che accadesse la vicenda di mio fratello Santiago, avevo una impresa con la quale vendevo diversi tipi di tè e spezie. Dopo di allora, sono entrato in una fase in cui mi sono avvicinato a differenti lotte di altre persone, e soprattutto sto cercando di sostenere le battaglie in cui mio fratello era impegnato. Questo mi richiede molto più tempo, con la conseguenza che ho perso la passione e l’interesse che trovavo nella mia attività.
Che è successo a tuo fratello?
Stiamo cercando di ricostruire quello che gli è accaduto. È in corso un’indagine, e non possiamo ancora dire quello che gli sia successo. Possiamo intuire o possiamo sapere qualcosa: che il primo di agosto del 2017 ci fu una manifestazione di un gruppo di indigeni mapuche, che aveva occupato una piccola parte dei 944mila ettari di proprietà del gruppo Benetton, nella provincia del Chubut. Chiedevano il recupero della terra e la liberazione di un lonko (capo di diverse comunità mapuche, ndr). Ne è seguita una repressione illegale, perché priva dell’ordine giudiziale, da parte degli agenti della Gendarmeria. Santiago scompare allora per settantotto giorni, per ricomparire morto nel fiume Chubut, nello stesso territorio che era stato setacciato dalle forze dell’ordine. E venne ritrovato in condizioni di conservazione che non erano normali per un corpo che fosse stato per tutto quel tempo in acqua. Questo è quello che sappiamo. Più passa il tempo, più ci facciamo domande e meno ci vengono date risposte.
Che ruolo ha il gruppo Benetton?
Io non conosco Benetton e non posso formulare un giudizio. Quello che posso dire è che negli anni Novanta fu favorito, affinché potesse diventare proprietario di tanta estensione di terra. Era l’epoca della presidenza di Carlos Menem, che ha stravolto il Paese vendendo una miriade di imprese. Solo per fare un esempio, abbiamo una impresa elettrica, Edesur, che ha un contratto della durata di novant’anni con una impresa italiana. Benetton è quindi uno dei tanti. Però, se torniamo a quella parte di territorio che riguarda Santiago, è assodato che il gruppo Benetton ha comprato molta terra, aprendo anche un museo. Ma non ha mai riconosciuto alcun diritto di proprietà ai popoli indigeni, come quella che reclamavano i manifestanti. Nella sua estancia è presente una postazione della Gendarmeria con la funzione di protezione. Quelli di cui stiamo parlando sono luoghi con molte risorse naturali, non si tratta di terre improduttive, e se non vengono sfruttate ora, potrebbero esserlo in futuro. Se io avessi tutto il denaro del mondo e volessi, per esempio, comprare il Vaticano, non credo che me lo venderebbero. Uno non ottiene circa 944mila ettari, quelli di cui dispone Benetton, senza la connivenza del potere politico e anche giudiziario.
Qual è la tua opinione sulla questione dei mapuche?
Parlare dei mapuche mi costa, perché bisogna parlare dell’idiosincrasia dei popoli originari. Sono molto rispettoso e capisco le rivendicazioni, che con le sue azioni Santiago sosteneva. C’è una differenza tra mio fratello e me, e sta nel fatto che lui era anarchico, non credeva nello Stato, e per questo si è avvicinato ai mapuche, i quali non credono nello Stato e hanno le proprie leggi. Su questo mio fratello e io non coincidevamo. Io devo ricorrere alla giustizia per sapere cosa è accaduto a Santiago, perché credo nello Stato di diritto. Quindi non posso pensare come fanno i mapuche. È giusto appoggiarli, nelle rivendicazioni che portano avanti, ma in due recuperi di terre che sono avvenuti, ci sono già stati tre morti. Il primo nel territorio di Benetton è stato Santiago, il secondo, nella provincia di Río Negro, dove è stato ucciso a fucilate Rafael Nahuel, il terzo ha colpito un altro giovane di origine mapuche. Posso simpatizzare, appoggiare le loro rivendicazioni, però non è comprensibile che venga una machi (una sciamana, ndr) o un lonko a rivendicare la proprietà di territori, dicendo che è territorio sacro. Tuttavia, quando le carte permettono di far risalire la proprietà ai mapuche, siamo perfettamente d’accordo.
Potresti definire la vicenda di tuo fratello come un episodio della violenza di Stato?
Come fratello mi costa dare alla storia di Santiago l’importanza che ha. Tutte le sparizioni, tutte le vite hanno il medesimo valore. Santiago non è stato il primo desaparecido e nemmeno l’ultimo. Ma non è stato per caso che non sia stato un mapuche a sparire, quanto piuttosto un bianco appartenente alla classe media. I mapuche hanno avuto molti desaparecidos ma nessuno li ha rivendicati, com’è stato, invece, nel caso di Santiago. Mio fratello era carismatico, e in più noi abbiamo potuto farci sentire e ricorrere a molti mezzi per potere far emergere il dramma della sua sparizione. Che mio fratello sia sparito non è stato un caso, volevano ottenere un grande impatto. E di questo mi sono convinto quando l’anno scorso hanno tentato di assassinare la vicepresidente Cristina Kirchner: questo tentativo di omicidio dimostra che quando il popolo alza la testa il potere reagisce. La sparizione di Santiago ha provocato tutte le manifestazioni di massa che si sono fatte in differenti città del mondo, e ha portato, nel 2017, trecentomila persone in Plaza de Mayo. Con questo clamore attorno al suo caso, accade che riappaia nel modo in cui riappare, e tutto culmina con la gestione della ministra della Sicurezza, Patricia Bullrich, che nel dicembre del 2019, prima di lasciare l’incarico, riceve in dono dalla Gendarmeria nazionale una sciabola con la frase “Non voglio fare l’ingiustizia di gettare un gendarme dalla finestra”. La frase riporta la dichiarazione fatta dalla stessa Bullrich nel 2017, nel mezzo dell’indagine sulla scomparsa di Santiago. Di fatto, la concessione dell’impunità. Se persino per Santiago Maldonado, con tutta la mobilitazione che è nata attorno al caso, possiamo parlare di impunità, a una madre, alla quale sia stato ucciso un figlio e che non abbia la possibilità di ricorrere all’ausilio di un avvocato, non è concesso nessun mezzo di andare avanti e ottenere giustizia. Questo per me è un ulteriore motivo di lotta.
I tuoi genitori sono in vita? Come hanno vissuto tutto questo?
Nella mia famiglia ci sono persone che sentono il bisogno di chiedere che sia fatta luce sull’accaduto, e altre che preferiscono non protestare. I miei genitori sono molto anziani e profondamente cattolici. Vanno durante la settimana al cimitero, portano dei fiori sulla tomba. Hanno un modo di comunicare con Santiago. Non posso pretendere che mia madre diventi una delle Madri di Plaza de Mayo. L’epoca è diversa, e pure le circostanze. Quello che mi sembra importante è che su questa vicenda non si spenga la luce, anche a livello internazionale, e che si sappia che c’è stata impunità, e che può accadere che un imprenditore di successo in Italia, talvolta non dimostri alcuna attitudine fuori dal suo Paese. Santiago era un ragazzo di ventotto anni che appoggiava molte lotte. Aveva fatto il suo primo viaggio per sostenere i guaraní al nord, era andato ad appoggiare i pescatori dell’isola cilena di Chiloé, era fortemente impegnato nella difesa dell’ambiente. Non apparteneva ad alcuna organizzazione, era un anarchico, e pertanto si muoveva solo. Era sempre in viaggio, ma non faceva turismo. A volte sento di avere perso molto perdendo Santiago, dato che faceva tante cose di cui nemmeno mi rendevo conto. Ho cominciato a conoscerlo meglio da quando ho intrapreso questo lungo cammino per avere giustizia.
Foto di Alejandra Bartoliche