Ci sono tanti modi di affrontare le questioni serie, ma non tutti sono seri. In Italia basta sporcare qualcosa con la vernice lavabile per essere trattati da criminali; altrove si prova a muovere le cose per andare lontano. L’iniziativa prende le mosse da micro-Stati del Pacifico, isolette che rischiano di sparire: un ministro parla alla stampa in giacca e cravatta, ma con le gambe in mare. Lui e il leggìo da conferenza, a bagno. Ma non c’è da ridere. Il gesto mediatico è accompagnato da una strategia giuridica, e questa è studiata bene: la proposta è che l’assemblea generale dell’Onu si rivolga alla Corte internazionale di giustizia, all’Aia, per esaminare gli aspetti legali della questione climatica e fissare criteri per una tutela vera. Insomma, si tratta di andare oltre i soliti buoni propositi. L’assemblea, all’unanimità, accoglie l’idea e il 29 marzo rivolge alla Corte un quesito (leggibile qui). Possiamo considerarlo un punto di riferimento.
Le premesse citate nell’atto, quelle sono abbastanza prevedibili. Si richiamano le risoluzioni precedenti, la Carta dell’Onu, la Dichiarazione dei diritti umani, il Patto internazionale sui diritti civili e politici. Ci sono anche il Protocollo di Montreal, gli accordi di Kyoto e di Parigi, e altro. Sin qui, nulla di nuovo; siamo poco lontani dalla solita letteratura esortativa, destinata nella migliore delle ipotesi ad alimentare commenti minuziosi, trattative snervanti, promesse. E poi, il documento ha qualche dimenticanza: non fa riferimento alla guerra, all’accaparramento di materie prime, alle violenze praticate da strutture diverse dagli Stati, e da questi protette. Forse proprio i limiti, hanno permesso una larga adesione. Eppure, nella risoluzione c’è un punto lungimirante: il principio di prevenzione in tema di ambiente, che guarda oltre le certezze, e impone cautela anche su ciò che non è ancora unanimemente dimostrato.
Ed ecco la novità, il bel colpo: l’assemblea, basandosi sull’articolo 96 della Carta dell’Onu, che le permette di chiedere alla Corte dell’Aia un parere consultivo, e sull’articolo 65 dello Statuto della Corte stessa, chiede una presa di posizione legale: non proprio una sentenza, ma un punto di vista d’ordine generale. Non si tratta più di esortare o ammonire, ma di disegnare a livello consultivo i reali effetti giuridici, quindi pratici e anche economici, che potrebbero essere prodotti, invocati o pretesi. Potrebbero esserlo, s’intende, un domani; ma sappiamo che, con l’accelerazione delle alterazioni climatiche, domani è oggi.
Adesso la Corte dell’Aia dovrà rispondere a due interrogativi. Primo, quali sono gli obblighi degli Stati, in diritto internazionale, allo scopo di proteggere il clima e l’ambiente, per la generazione presente e per quelle future. Secondo, quali conseguenze legali ci sono per gli Stati, in caso di azioni o di omissioni nocive; e qui si chiede spazio per una cosa grossa: il quesito riguarda sia i danni ad altri Stati, specialmente quelli geograficamente sfavoriti come le piccole isole, sia i danni a popolazioni e a singole persone, e tutto sempre per la generazione presente e per quelle future. Siamo di fronte a una prospettiva ampia, nello spazio e nel tempo, e anche se il Pacifico è lontano, in quel riferimento alle persone di oggi e di domani si sente un’eco alla Capitini, un senso di compresenza.
La risoluzione dell’assemblea dell’Onu investe la Corte internazionale di una questione giuridica epocale, e lo fa a largo raggio: si dà per solido o comunque per plausibile, appunto, che la violazione degli obblighi in tema di ambiente – attiva oppure omissiva – determini diritti attivabili dagli Stati ma anche da comunità (come gli enti locali) e persino da privati. Nel quesito, nulla fa pensare che la tutela degli interessati sia limitata al risarcimento successivo; in altre parole, la tutela potrebbe essere chiesta prima del danno, sotto forma di provvedimenti preventivi, cautelari o d’urgenza. La disponibilità d’acqua in Francia? Le foreste dell’Amazzonia? O, più vicino, l’aria di Taranto? E perché non la salute, minacciata da un virus? E a ben vedere, ogni danno grave colpisce senza badare alle frontiere: perciò, si può pensare anche all’esercizio della giurisdizione nazionale su fatti o pericoli all’estero. Questo sforzo giuridico internazionale può andare parecchio più avanti, per esempio, di quella sentenza deludente della Cassazione italiana, a sezioni unite (4461 del 2009), che negò tutela alla comunità di Aviano contro i rischi nucleari, dicendo che non c’erano “comportamenti già accertati nella loro consumazione”.
Certo, non bisogna illudersi che per cambiare bastino una risoluzione, discussa con interventi non tutti di pregio, e poi un parere della Corte che, comunque vada, sarà autorevole ma non decisivo. Per la giustizia climatica ci vuole un nuovo modello nei rapporti di produzione e nella politica. C’è da lavorare, ma questo è un buon motivo per non lasciarsi sfuggire nessuna opportunità. Di sicuro, l’impostazione dei quesiti è sostanziosa e il tema spalanca una prateria di richieste di giustizia, eventualmente in diverse sedi legali, nazionali e no. Starà ai giuristi più consapevoli raccogliere le necessità e trasformarle in impegno, superando ruggini e pastoie. Silvio Trentin, nel 1935, esule in Francia, scriveva: “Al di sopra dei sistemi caduchi delle norme sociali che reclamano per sé, con la sola forza, le prerogative della regola del Diritto, domina incancellabile, sempre riconoscibile, il Diritto” (e ci teneva alle maiuscole).
C’è anche una coincidenza. L’anno scorso la Germania si è rivolta alla Corte internazionale di giustizia, contro l’Italia. Berlino non vuole che i giudici italiani, per il risarcimento dei crimini della Seconda guerra mondiale, tutelino le persone negando l’immunità di Stato. La causa ora pende insieme al quesito dell’assemblea generale. Questioni diverse per fatti e procedimenti, certo. Ma non si vede, in trasparenza, qualcosa in comune? Crimini di guerra e crimini di pace; vite spezzate dalle armi, di colpo, o spente un po’ alla volta, da malattie o stravolgimento della natura. Si tratta sempre di dare tutela alle persone, di fronte all’arbitrio del potere: militare, politico, industriale.
L’Italia è culla del diritto, la Germania ha il Max Planck e la Gran Bretagna ha Oxford, ma questa via giuridica comincia dalle isole del Pacifico. Come chiamarli, questi isolani, concittadini? Siamo indietro: per dire che abitiamo sullo stesso pianeta, e quindi che tutti i problemi sono di tutti, bisogna ancora trovare le parole.