“Salvo sorprese, a ottobre vincerà la destra. È da vedere se avrà la meglio il centrodestra sotto forma di una qualche espressione dell’ex presidente Mauricio Macri, o quella anarco-liberista di Javier Milei. Circa il nuovo governo, si incaricherà di demolire quanto fatto da quello che l’ha preceduto, ma che si esca dalla situazione in cui stiamo vivendo, sembra davvero difficile”. Questa in sintesi l’opinione sfiduciata di molti oggi in Argentina, nel mezzo di una crisi economica che, nello scorso mese di febbraio, ha spinto l’inflazione su base annua a superare per la prima volta, in trentadue anni, le tre cifre, attestandosi sul 102,5%. Ovvio, quindi, che il centro del dibattito politico nelle elezioni presidenziali di ottobre sarà la situazione economica e la lotta, finora vana, contro l’inflazione. Lo scorso dicembre, il presidente Alberto Fernández aveva chiuso un accordo con le aziende che producono cibo e prodotti di igiene personale. Lo scopo era quello di congelare i prezzi di circa duemila prodotti fino a marzo, contenendo gli aumenti di altri trentamila al 4% mensile.
“Mi chiedi se compro il lomo? Da tempo ormai abbiamo dovuto rinunciarci” – mi confida Alberto in attesa al bancone di una macelleria. Da poco pensionato delle poste, dove ha lavorato per un trentennio, ora è costretto a fare un altro lavoro per sopravvivere. Oltre al filetto, il cui prezzo va alle stelle, in sole quattro settimane anche il macinato comune è aumentato del 35%, ed è diventato un lusso per le famiglie che non possono far fronte al frenetico aumento del costo della vita. L’impennata del prezzo del cibo a febbraio – guidata da carne, latticini, uova e frutta – ha creato serie difficoltà a nutrirsi, in un Paese dove circa il 40% delle persone vive in povertà.
Le molte carnicerias che ho visitato nemmeno espongono più i prezzi dei tagli di carne, per non dovere stare lì ad aggiornarli in continuazione – mi spiega un macellaio. Quando chiedi a un argentino che ti parli dell’inflazione, scoppia a ridere, per non piangere. Per far girare l’economia spicciola, tanti negozi di abbigliamento o di scarpe espongono in vetrina cartelli che propongono il pagamento a rate senza interessi, pur di vendere. Mentre al ristorante non è raro vedersi portare un conto in cui il trattore applica un prezzo più alto se paghi con la carta di credito, e uno sconto se paghi in contanti. Strategie diverse, forme di adattamento che si riconducono alla sfiancante lotta quotidiana di un popolo impegnato a sopravvivere all’inflazione, mentre fa pena vedere le code della gente alle onnipresenti agenzie Western Union, dove ci si reca spesso per inviare a parenti lontani una manciata di pesos.
E bastasse l’inflazione! Un recente rapporto della Borsa di commercio di Rosario ha reso noto che la siccità, che dura da tre anni, ha causato perdite per circa diciannove miliardi di dollari, il che significa tre punti del prodotto interno lordo (Pil) argentino stimato per l’anno 2023. Stando all’ultimo rapporto del Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef) stilato utilizzando i dati ufficiali dell’Istituto nazionale di statistica (Indec), due bambini su tre in Argentina sono poveri o privati di diritti fondamentali, come l’accesso all’istruzione, alla protezione sociale, all’alloggio o all’acqua. Sempre secondo tale rapporto, nella prima metà del 2022 il 51,5% dei bambini viveva in povertà, in famiglie il cui reddito non è sufficiente per coprire il paniere di base di cibo e servizi. Ad affrontare questa situazione, che coinvolge 8,8 milioni di minori in Argentina, le reti comunitarie nei quartieri più poveri, sostenute principalmente da donne che collaborano alla creazione di mense e spazi per l’assistenza all’infanzia, che svolgono un lavoro non retribuito.
In una situazione tanto grave, il ministro dell’economia, Sergio Massa, è riuscito a ottenere un po’ di ossigeno dal Fondo monetario internazionale, che ha deciso di addolcire gli obiettivi sui quali il governo di Alberto Fernández si era impegnato nel gennaio 2022. Allora, con la contrarietà della sua vice, Cristina Kirchner (risale a quel tempo la rottura politica tra i due), il presidente aveva concordato il rifinanziamento di un debito per 44.500 milioni di dollari. Il più grande debito contratto dall’Argentina con il Fondo monetario internazionale dall’allora presidente Mauricio Macri che guidava una coalizione di centrodestra. Intanto, il governo ha pensato di eliminare i sussidi al 30% delle famiglie, a partire dagli strati più abbienti. Mentre gli ambienti governativi sperano che l’aumento della produzione di petrolio greggio e gas, nel giacimento di Vaca Muerta, possa in parte compensare il disastro delle mancate entrate fiscali per la siccità nelle campagne.
Per dare un segno di vita, il 21 marzo scorso, il governo ha deciso che da aprile il salario minimo passa a 80.342 pesos, da maggio a 84.512 e da giugno a 87.987, sulla base di aumenti del 15,6%, 6% e 5%. Poco più di quattrocento euro al cambio ufficiale. Acqua fresca per la Central de los trabajadores de la Argentina autónoma (Ctaa). L’unica, tra l’altro, che ha respinto la proposta, sostenendo che “qualsiasi aumento stabilito deve essere ben al di sopra dell’aumento del 116% che il paniere alimentare ha già avuto nel nostro Paese nell’ultimo anno”. Ritenendo che – come ha dichiarato il suo segretario generale, Hugo Godoy – “dobbiamo garantire un aumento e una percentuale di aumento che ci avvicini il più possibile a questo paniere minimo”.
Sul piano politico, la novità è che Mauricio Macri, già presidente dal 2015 al 2019, ha confermato che non intende candidarsi alle elezioni presidenziali di ottobre. Con la sua decisione, sgombra il campo al finora principale candidato presidenziale della destra: il sindaco della capitale, Horacio Rodríguez Larreta. E alla sua forte rivale interna, Patricia Bullrich, ex ministra della Sicurezza di Macri. I ben informati spiegano così la sua decisione: sarebbe convinto di perdere in un eventuale ballottaggio, vista la pessima performance del suo governo e la sconfitta cocente subita a opera di Alberto Fernández. Secondo queste fonti, Macri vorrebbe tornare a occuparsi del Boca Juniors puntando alla presidenza della Fifa. La sua uscita di scena è stata vista come un indebolimento dell’ipotesi di una ricandidatura di Cristina Kirchner, richiesta a gran voce dai suoi sostenitori.
Stando ai dati dell’Istituto nazionale di statistica e censimento (Indec), Macri ha lasciato la sua poltrona di presidente con un’inflazione del 53,8%, dieci punti in più di quella esistente nella seconda metà del 2016, il più alto dal 1991. Ha portato al 35,5% la popolazione povera, cinque punti in più rispetto alla seconda metà del 2016, e a una disoccupazione di quasi due cifre (9,2%). Non è riuscito ad aumentare gli investimenti privati, e ha avuto solo il 2017 come anno di crescita economica. Allo stesso modo, ha aumentato l’indebitamento pubblico sia in termini assoluti sia relativi, passato dal 53% del Pil nel 2015, al 90% nel 2019, creando gravi condizionamenti futuri per le finanze pubbliche e per l’economia in genere. Ciò detto, la forza elettorale del macrismo e dei suoi alleati rimane competitiva, e Macri è stato il primo presidente né peronista né radicale della storia recente.
L’altra novità dei giorni scorsi riguarda Cristina Kirchner: la pubblicazione delle motivazioni della sentenza di primo grado contro di lei che l’ha condannata a sei anni. Secondo i giudici ha mantenuto, durante il suo governo, “legami promiscui e corrotti” con un uomo d’affari incaricato dei lavori pubblici a Santa Cruz, la provincia patagonica che è la culla del suo movimento politico. I giudici l’hanno considerata a capo di un’organizzazione creata dallo Stato, destinata a beneficiare Lázaro Báez con contratti milionari. L’uomo d’affari, a sua volta, avrebbe contraccambiato “i profitti indebitamente ottenuti” attraverso affari spuri con “le imprese familiari dell’ex presidente”.
Come già detto, la per nulla brillante gestione di Alberto Fernández, ha aperto nuove chance per Juntos por el cambio – la formazione di origine macrista – del tutto insperate solo quattro anni fa. Le elezioni di medio termine del 2021, in cui Juntos por el cambio ha ottenuto il primo posto con il 42,7% dei voti, e il partito di governo peronista è arrivato secondo con il 34,56%, hanno mostrato che il centrodestra può anche superare il 40% ottenuto nel 2019.
Secondo i dati in mano al governo, che risalgono al 25 marzo, il 34% dei voti andrebbe a Juntos por el cambio, il 32% al Frente de todos e il 21% a Javier Milei. Sta di fatto che, con la sua La Libertad avanza, Milei cresce nei sondaggi. La precedente rilevazione demoscopica del quotidiano “Clarín” lo dava al 17%. E pensare che fino a due anni fa Milei – un economista che ha posto al centro delle sue sortite intemerate le teorie di John Maynard Keynes, accusate di essere all’origine della corruzione dei politici – era uno sconosciuto. La sua fortuna è stata quella di diventare il beniamino dei talk-show, in cui dispensava insulti a man bassa, finché non ha deciso di candidarsi nel 2021. Giorni fa, ha presentato il suo “piano motosega” che, tra l’altro, prevede la scomparsa dei ministeri dei Lavori pubblici, della Salute, dell’Istruzione, dello Sviluppo sociale, la libera vendita delle armi per la difesa dei cittadini, e anche il libero commercio degli organi umani. Contro l’inflazione, auspica l’incendio della Banca centrale argentina, e via di questo passo. Per lui più il Paese va a rotoli, meglio è. Si situa sulla scia di Trump (come l’ex presidente crede che l’elezione di Biden sia stata frutto di brogli) e di Bolsonaro.
La sua fede nelle idee ultra-liberali è quanto di più ideologico esista nell’offerta politica argentina al momento. Trova però seguito nei delusi della politica, fa perno sulla frustrazione diffusa a livello sociale per la mancanza di futuro, mentre il suo messaggio punta ad azzerare tutto per poter ricominciare, spinto dal fallimento di Alberto Fernández e di Cristina Kirchner. A Tucumán, città del Nord, ha candidato a governatore Ricardo Bussi, figlio di un ex militare condannato per crimini contro l’umanità. Chi sostiene Milei non necessariamente concorda con le sue proposte incendiarie, ma riconosce che i politici sono “una manica di criminali e ladri”. Lui, per far vedere che è diverso, ogni mese sorteggia il suo stipendio di deputato nazionale pescando dalla lista dei sostenitori. Lo appoggia chi appartiene a un elettorato per lo più giovane e della classe media – ma riscuote simpatia anche nei quartieri poveri della periferia di Buenos Aires di tradizione peronista. Lo sbracciarsi politico di Milei obbliga i pre-candidati del centro – in particolare il sindaco della città di Buenos Aires, Horacio Rodríguez Larreta – a spostarsi a destra. Col risultato che pare già svanito il suo sogno di mettere fine alla grieta, cioè alla spaccatura politica di cui soffre il Paese. E spinge figure più estremiste dell’alleanza, come Patricia Bullrich.
Il Frente de todos non ha ancora definito i candidati, ma durante la grande manifestazione del 24 marzo a Buenos Aires, per l’anniversario del golpe del 1976, Máximo Kirchner, figlio di Cristina e leader de La Campora, la massima organizzazione kirchnerista, ha aperto alla possibilità che le divergenze interne al peronismo trovino soluzione nelle primarie che, per tutti i partiti, si celebreranno ad agosto. Nella lista dei leader che potrebbero candidarsi ci sono il ministro dell’Interno, Eduardo “Wado” de Pedro, e il governatore del Chaco, Jorge Capitanich; ma la situazione è fluida e potrebbero farsi avanti altri nomi. Per Máximo Kirchner il presidente attuale è stato un fallimento. Lo accusa della sconfitta nelle elezioni del 2021, dell’attuale situazione economica e dell’eventuale futuro politico della coalizione di governo. Dal canto suo, Alberto Fernández non vuole che Cristina scelga il futuro candidato presidenziale del partito di governo, e ha considerato che le ultime dichiarazioni di Máximo, in qualche misura, gli aprano la strada a una ricandidatura. Mentre Cristina non vuole le primarie aperte simultanee obbligatorie, e ancor meno che Alberto Fernández competa, dato che punta a trovare un candidato che si adatti alla sua strategia politica. Insomma, la confusione sembra regnare sovrana nel Frente de todos, e in genere un po’ in tutta la politica argentina.
La corsa elettorale può dirsi già iniziata. La Camera nazionale elettorale ha fissato la data delle primarie aperte, simultanee e obbligatorie (Paso), per il 13 agosto, e il primo turno per il 22 ottobre. In caso di ballottaggio, gli argentini andranno nuovamente alle urne il 19 novembre. Ciò avverrà solo nel caso in cui nessuno dei candidati ottenga il 45% dei voti, o il 40% con una differenza di dieci punti da chi ottiene il secondo posto. Secondo il calendario elettorale 2023, le alleanze possono essere presentate fino al 14 giugno. E solo il 24 giugno si saprà chi sono i candidati alla presidenza che competeranno nelle primarie. Oltre ad eleggere il presidente e il vicepresidente della nazione, gli elettori sceglieranno 135 deputati e 24 senatori: la metà della Camera bassa e un terzo della Camera alta.