È tornata a circolare in questi giorni, soprattutto in rete, la storia triste, amara e allo stesso tempo disarmante, del ragazzino maliano annegato nel Mediterraneo durante una traversata nel tentativo di giungere in Europa: la sua età stimata era di quattordici anni, e aveva con sé, arrotolata nella tasca interna del giubbotto, una pagella scolastica con tutti dieci, unico documento trovatogli addosso. Probabilmente, nelle sue intenzioni, quella pagella avrebbe dovuto essere la chiave d’ingresso in Europa, il lasciapassare che gli avrebbe consentito di essere accettato come una persona seria, valida. Ma quel ragazzino, come molti altri, sulle coste di quel continente che rappresentava la salvezza non è mai riuscito ad arrivare. Era il 2015.
Per molti piccoli migranti, per quelli che ce la fanno, la scuola è una risorsa desiderata e irrinunciabile. Lo racconta l’immagine di Rayane, marocchino di undici anni, alunno di prima media, cacciato nel luglio del 2019, insieme alla sua famiglia, dal palazzone di Tor Vergata dov’era nato, in uno degli sgomberi “militarizzati”, e immortalato mentre sfila, davanti ai poliziotti schierati, con la sua preziosa pila di libri.
Il sistema scolastico italiano ha generato, negli ultimi trent’anni, un’importante riflessione sull’accoglienza, sulla didattica e sull’integrazione dei figli dell’immigrazione. C’è un’ampia diffusione di buone pratiche, di documentazione e di indicazioni operative, come di proposte per verificare la capacità di inclusione nelle scuole, per quanto riguarda il rendimento scolastico e la dimensione relazionale. Nel complesso panorama della gestione italiana del fenomeno migratorio, la scuola è da considerare una sorta di “isola felice”. Le differenze a scuola sono meno importanti delle somiglianze, della solidarietà generazionale, dell’affermazione delle proprie idee, anche contro gli stereotipi degli adulti. La nuova e visibile presenza di bambini, adolescenti, giovani, che portano iscritti nei loro nomi, nei loro corpi, nelle loro storie, il carattere di transizione del tempo in cui viviamo, costringe le scuole, come ogni altro spazio pubblico, a lasciarsi attraversare, contaminare e trasformare, dando origine a nuove strategie e pratiche di cosmopolitismo, ibridazione, meticciato.
Sapendo, si è liberi, ed essere liberi in una società condizionata da stereotipi è difficile. Ancor di più se volessimo studiare, ma non possiamo per motivi economici. Le storie di ragazzi che provano a istruirsi, per garantirsi un futuro migliore, è la testimonianza di che cosa sia diritto allo studio e all’istruzione per tutti i bambini e ragazzi del mondo, che hanno anche un identico diritto alla vita e alla ricerca di un mondo migliore.
Abbiamo stabilito noi – Europa, Occidente – che essere nati in un posto diverso da questo – per caso, perché non si sceglie dove nascere – sia un problema loro. Mentre proclamiamo diritti universali, ci sentiamo padroni di applicarli solo a noi stessi, di considerare i migranti inferiori e invisibili, di dimenticare il loro dolore e le loro morti, per poi provare improvvisamente un colpevole disagio quando vediamo i corpicini dei loro figli abbandonati sulle spiagge, o ripescati in fondo al mare, e imbarazzo quando arrivano improvvisamente fra noi a rivendicare gli stessi diritti, lo stesso amore per i figli, la stessa priorità della vita, di cui andiamo tanto fieri. Ora più che mai dovremmo invece porci la domanda più importante: sono davvero i migranti ad avere bisogno di noi, o non è piuttosto il contrario?
A Cutro, nella notte tra sabato 25 e domenica 26 febbraio, abbiamo assistito all’ennesimo incidente nel Mediterraneo, ormai un cimitero dove sono morti anche molti bambini. Erano dovuti scappare prima a piedi verso l’Iran, poi in Turchia, quindi su quella barca di legno azzurro nella speranza di arrivare in Europa e salvarsi dalle persecuzioni dei talebani.
Quindi oggi contiamo le vittime di soccorsi che non sono arrivati, di decreti che sono stati emanati, delle burocrazie, delle responsabilità e delle inerzie relative. Chi deve andare? Chi deve soccorrere? È un continuo scaricare le responsabilità in un’indifferenza imbarazzante. È vero, un modo sicuro per non rischiare la vita è non partire, come saremmo certissimi di non divorziare se evitassimo di sposarci o di avere figli se non facessimo l’amore.
La morte del migrante è l’immagine e la misura di quello che è stata la sua vita: una vita e una morte disturbanti, che non trovano posto in nessun luogo. La morte fisica mette così fine, in alcune circostanze, alla morte sociale, politica e civile, costitutiva di una condizione esistenziale, già inscritta nella vita: morte oscura, anonima, segreta e senza sepoltura, né nel Paese straniero né nella terra natale. Di questi morti, che ci chiamano a rispondere delle nostre promesse mancate, della disumanità e ipocrisia delle leggi che ci siamo dati, è ormai pieno il Mediterraneo, questo mare che porta invece nel suo nome il senso della mediazione, e che potrebbe tornare a essere il luogo del dialogo fra Nord e Sud del mondo, se fosse possibile rinunciare al dominio disumano da cui non riusciamo a liberarci.
Dobbiamo ripensare la nostra specie come parte di un unico mondo vivente, che può essere salvato solo attraverso un lento processo di trasformazione individuale e collettiva. È proprio in questo senso che un diverso confronto e una inedita “alleanza” con i migranti, e con la loro profonda rivoluzione culturale, potrebbero essere, proprio ora, la sfida da non perdere. Occuparsi di chi lucra sul traffico di vite e ricatta con la chimera di chiudere i confini non serve, non raggiunge lo scopo. Non esiste la possibilità di “non farli partire”. Chi lo dice inganna consapevolmente. Eliminiamo questa favola.