Forse poche decisioni quale quella che il governo ha preso, sostituendo il capo dell’Agenzia nazionale per la cybersecurity, Baldoni, danno il senso di come stiano cambiando le relazioni sociali, economiche, internazionali. Per la prima volta, un esecutivo invece di affannarsi a mettere mano agli organigrammi della Rai (che comunque saranno profondamente rimaneggiati dai cucinieri di Palazzo Chigi) si avventa su un apparentemente minore ganglio della macchina statale, come sembra essere l’agenzia per la sicurezza informatica istituita dal governo Draghi.
Si tratta di un apparato che riveste ormai una rilevanza strategica: al crocevia fra la politica estera, con gli ormai quotidiani assalti che si verificano dall’inizio della guerra in Ucraina, da parte di hacker prevalentemente di matrice russa, l’economia interna, con la riorganizzazione di interi comparti industriali, e soprattutto le scelte di alleanze e di integrazioni con i grandi centri tecnologici internazionali. Una vera plancia di comando, che il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Alfredo Mantovano, non poteva non voler controllare direttamente nella sua bulimica espansione di potere che, su mandato della premier Meloni, sta conducendo.
Il responsabile uscente dell’agenzia, Roberto Baldoni, uno dei massimi esperti della materia, nonché già dirigente della sezione informatica dei servizi di informazione nazionale, stava allestendo ancora il delicatissimo sistema di competenze e abilità che prevedeva la legge. Al momento, siamo solo a un terzo della struttura, che prevede almeno 650 componenti, gran parte dei quali esperti informatici di altissimo profilo. Uno dei motivi per cui il Paese appare scoperto, di fronte agli attacchi hacker, è proprio il fatto che i buchi di personale sono ancora troppi.
Al suo rientro dall’India, Giorgia Meloni aveva già fatto intendere di non essere soddisfatta della gestione della cybersecurity, soprattutto perché – fanno capire i suoi collaboratori – non ha visto efficienza e capacità nel corso delle scorrerie con cui i pirati digitali hanno salutato il suo viaggio a Kiev, colpendo centri nevralgici del Paese. Inevitabilmente, però, intorno alla questione della cybersecurity si stanno attorcigliando anche altre contraddizioni del governo. A cominciare dagli ammiccamenti di Berlusconi e Salvini con Mosca. È chiaro che proprio il fronte digitale è la prima linea di un attrito permanente, che ha reso incandescenti le nostre relazioni con i russi. In secondo luogo, la cybersecurity sta diventando una leva di controllo politico ed economico dei grandi centri industriali pubblici, come Eni, Enel, Terna e la stessa Rai. Poter disporre a piacimento, come accadrà con la nomina annunciata del successore di Baldoni – quale sarà l’attuale prefetto di Roma, Bruno Frattasi –, delle leve della sicurezza informatica significa tenere sotto schiaffo i vertici di tutti i centri economici, condizionandone le scelte ordinarie: pensiamo, per esempio, alle banche.
Poi c’è l’altra materia bollente, che riguarda l’omologazione degli standard di sicurezza che l’agenzia rilascia riguardo agli esercenti di servizi sensibili, come gli operatori telefonici – vedi il caso di Huawei –, oppure delle piattaforme social, come TikTok, o ancora degli apparati fiscali e assicurativi. Per concludere, rimane la strategia tecnologica, le scelte di alleanze internazionali dei grandi fornitori, come nel caso del cloud nazionale che Draghi ha lasciato a metà strada, e che ora Meloni deve decidere come realizzare, se appoggiandosi alle infrastrutture di Google e Amazon, come stava facendo il ministro della Transizione tecnologica del precedente governo, Colao, oppure, in nome della sovranità nazionale, trovando una soluzione autonoma.
Come si vede, la poltrona è quanto mai essenziale nello schema di governo. È un vero crocevia in tutte le direzioni. Si spiega dunque l’ansia della maggioranza di controllarla, mentre non si spiega il silenzio delle opposizioni nel denunciare questa manovra di mera occupazione del potere. Così come non si spiega neanche la distrazione sindacale, su una questione che avrà un impatto rilevante sull’occupazione e lo sviluppo.