Zingaretti si dimise da segretario del Pd in circostanze mai del tutto chiarite. Bersani – che adesso considera la segreteria Schlein “una novità con elementi di avventura” (si veda la sua intervista al “Corriere della sera” di oggi, 3 marzo) – dovette dimettersi dopo lo scherzo che gli combinarono i suoi non votando il candidato alla presidenza della Repubblica, Romano Prodi, sul quale era stato raggiunto un accordo la sera prima. La domanda è allora: quanto riuscirà a durare Elly Schlein? E la risposta potrebbe essere: forse solo fino alle elezioni europee del prossimo anno.
Intendiamoci: nonostante quello delle “primarie” sia un meccanismo perverso, del tutto inadatto alla elezione di un segretario di partito, non si può che avere il massimo rispetto per quei cittadini che, andando a votare in una domenica di pioggia, hanno rovesciato i pronostici della vigilia che davano vincente Bonaccini. È stato un sussulto democratico. Ma il punto, purtroppo, è un altro: alla fine la bella impresa dei “nostri” sarà servita a resuscitare un partito più morto che vivo, non soltanto diviso in numerose correnti, ma soprattutto costituzionalmente più centrista che di sinistra? Più legato, in altre parole, a una prospettiva che, prescindendo dal suo modo di fare arrogante, era quella di Renzi? Il quale sarebbe probabilmente ancora alla testa del Pd, se non avesse sbagliato giocandosi tutto su un insensato referendum nel 2016.
Elly Schlein, a cui molti consigliano di evitare di essere “divisiva”, dovrebbe invece esserlo al massimo grado per liberarsi di coloro che cercheranno di affossarla restando nel partito. Dovrebbero andarsene i renziani rimasti all’interno del Pd – l’intera corrente di Base riformista – e anche qualcun altro; ma c’è da scommettere che per il momento non lo faranno, cercando, più proficuamente, di farle ostruzionismo dall’interno. Dopotutto – non dimentichiamolo – si tratta di un partito mezzo democristiano, di cui più della metà degli iscritti avrebbe voluto Bonaccini come segretario. È allora praticamente certo che questo corpaccione molle farà resistenza. Ve lo vedete del resto uno come Guerini, per dire, acconsentire alla proposta di una legalizzazione della cannabis (che rientrerebbe nel programma schleiniano), o, a maggior ragione, optare per una posizione più pacifista sulla guerra in Ucraina, che contempli uno sganciamento anche minimo dalla linea attualmente seguita dall’amministrazione statunitense? E c’è poi l’enorme incognita che riguarda alcuni degli alleati di Schlein stessa. Come si atteggerà un Franceschini, che fu già paladino, sia pure in seguito pentito, della elezione di Renzi alla segreteria?
Secondo la nostra analisi, il Pd è un partito che non potrà sopportare la “variante Schlein” troppo a lungo. Sempre naturalmente che Schlein faccia davvero la Schlein, e non si converta, strada facendo, a una qualche modalità trasformista. Al fondo, è il grosso del partito che dovrebbe trovare un acquietamento centrista, senza più fingersi nient’altro che questo. Un gruppo più di sinistra (in passato si era trattato solo del piccolo Articolo uno) potrebbe venirne fuori per riallearsi poi di nuovo, nell’ambito di un “campo progressista”, come si chiama adesso il centrosinistra. Ma dovrebbe anzitutto mirare a riprendersi i voti fuggiti verso un astensionismo che ha assunto ormai dimensioni drammatiche. Prima ancora di cercare di togliere voti alla destra, con la costruzione di un blocco sociale e politico che rompa l’incredibile storico amalgama tra interessi diversi, concentrato soprattutto nel Nord del Paese, ci sarebbe da battere la sfiducia offrendo all’elettorato il profilo chiaro di una sinistra del Ventunesimo secolo – attenta al mondo dei lavori precari, così come ai progressi nella sfera dei diritti civili e a quelli nella difesa dell’ambiente –, tale da far riavvicinare alla politica i molti che se ne sono allontanati. Sarebbe la missione di Schlein: ma come assolverla con il partito con cui l’intrepida giovane donna si trova oggi a manovrare?