I portuali genovesi del Calp (Collettivo autonomo lavoratori portuali), che hanno condotto già prima dello scoppio del conflitto ucraino, a partire dal 2019, una lunga e coraggiosa campagna contro il commercio di armi, giungendo, come segnalammo a suo tempo (vedi qui), fino a essere ricevuti da papa Francesco quale riconoscimento per la loro lotta, hanno organizzato, sabato 25 febbraio, una manifestazione nazionale contro la guerra con la parola d’ordine: “Giù le armi, su i salari”.
Nel comunicato del Calp, che ha indetto la manifestazione, si parla dello scatenarsi di una “deriva armamentista”, e si legge: “Caricare armi dai porti italiani destinate a Paesi in guerra è vietato. Il transito di armi destinate a Paesi in guerra è anch’esso vietato. Ma una piccola formula di poche parole aggiunte, non si sa quando e da chi, aggira questa disposizione e così i traffici di armi, gli interessi delle multinazionali produttrici di armi, la politica piegata a questi interessi causano guerra e disperazione in tante parti del mondo”. E di seguito il comunicato introduce la questione Ucraina sottolineando che “il conflitto in Ucraina prende una forma sempre più pericolosa. Come lavoratori portuali continuiamo insieme a tanti a contrastare il traffico di armi, ma vogliamo andare oltre, vogliamo vincere anche questa battaglia!”.
D’altra parte, il grido di allarme non giunge solo dal collettivo, l’associazione Weapon Watch, che si occupa del traffico di armi in area mediterranea, già a fine gennaio, ha segnalato un incremento preoccupante della circolazione di navi cariche di materiale bellico, in particolare quelle che transitano per il capoluogo ligure con destinazione Yemen, Siria. Armi spesso prodotte da ditte italiane, che partono da porti italiani. E il bellicismo ormai imperante non deve fare dimenticare che buona parte di questo traffico è contro i dettami della nostra Costituzione.
La manifestazione ha fatto riscontrare una partecipazione sorprendentemente larga, non solo di realtà genovesi: hanno aderito, infatti, anche i portuali di altri scali, con treni giunti da Livorno e da altre località, ma anche l’Unione sindacale di base (Usb), che alle tematiche belliche ha unito la questione della sicurezza sulle banchine, proclamando per l’occasione una giornata di sciopero nazionale, anche in conseguenza delle recenti morti sul lavoro a Trieste, Civitavecchia e La Spezia, e ha richiamato la necessità di controlli stringenti sulle condizioni di lavoro da demandare alle Autorità portuali. Erano presenti altre sigle del sindacalismo di base e lavoratori di altri settori; c’era la Comunità di San Benedetto di don Gallo, e adesioni sono venute da comitati di cittadini di Milano e Torino, arrivati con bus.
Un lungo corteo si è snodato prima attraverso il porto, poi sfilando in città, ricongiungendo così anche idealmente città e porto, spesso negli ultimi anni pensati come entità separate, anche sulla scia delle privatizzazioni che hanno progressivamente quasi cancellato il carattere pubblico delle strutture portuali. Sulla sopraelevata sventolava uno striscione: Stop Armi, Stop Bahri – a richiamare la lunga campagna contro le navi saudite che portano armi verso i conflitti mediorientali e verso l’Etiopia. Altri striscioni ricordavano i morti e la mancanza di sicurezza sulle banchine, mentre dietro lo striscione Studenti e operai blocchiamo la guerra sfilava una foltissima rappresentanza di studenti, in particolare quelli di Osa (Opposizione studentesca d’alternativa) e di Cambiare rotta. Presenti anche la Rete dei comunisti, con uno striscione classico e un po’ rétro che recitava Guerra alla guerra, e Potere al popolo, la cui portavoce nazionale, Marta Collot, è intervenuta nel comizio finale.
Il quotidiano locale “Il Secolo XIX” parla di almeno quattromila partecipanti; ma, al di là della consueta contesa sulle cifre, la partecipazione è stata decisamente sorprendente, soprattutto se si considera che in città, da tempo, la presenza a simili iniziative è piuttosto ridotta. Colpiva, in una Genova tragicamente anziana, una massiccia e pressoché maggioritaria partecipazione giovanile, frutto certo di un lavoro organizzativo capillare svolto dalle realtà studentesche presenti in piazza, ma anche di un sentimento crescente di rifiuto del conflitto che si sta facendo strada da tempo nel Paese. Ne testimoniano anche la molteplicità degli striscioni, molti dei quali evidentemente ingenui, autoprodotti e fatti in casa, e la varietà dei temi toccati dagli slogan. A più riprese, è partito un Fuori Alfredo dal 41 bis! a ricordare lo sciopero della fame sempre più drammatico intrapreso da Alfredo Cospito.
L’importanza del corteo è evidente: non solo per la città, in cui ha avuto larga eco il ricongiungimento tra città e porto, simboleggiato dal tracciato del percorso, ma anche a livello nazionale, dato che si è trattato di un’iniziativa in grado di tenere insieme forze politiche appartenenti a un fronte ampio, e di dare voce a un malessere riguardante il conflitto ucraino e il reiterarsi delle forniture d’armi, che è rimasto a lungo sotterraneo, avendo trovato finora rari momenti di espressione ufficiale.
Manifestazioni come quella di sabato danno una idea di un sentimento di rifiuto della guerra che sta crescendo nel Paese, condiviso anche al di fuori dei confini nazionali, come hanno mostrato, nei giorni scorsi, le grandi manifestazioni per la pace a Londra e Berlino, che hanno chiesto a gran voce la fine del conflitto e la cessazione dell’invio di armi. A Londra c’era Jeremy Corbin in testa al corteo; a Berlino Sahra Wagenknecht, della Linke, e la notissima femminista Alice Schwarzer hanno organizzato la giornata, ma adesioni sono venute anche da singoli esponenti dei verdi e dei cristiano-democratici. Un anno di guerra è lungo, per una opinione pubblica largamente anestetizzata dai media; ma qualcosa di nuovo forse comincia a muoversi in Europa all’insegna del Frieden schaffen ohne Waffen (“fare la pace senza le armi”), uno slogan fatto proprio e scandito dai manifestanti berlinesi come, in altre lingue, da quelli londinesi e genovesi.