La guerra uccide gli uomini e le donne, devasta le case, le strade, le piazze, i ponti, le fabbriche, le ferrovie, i palazzi pubblici, gli impianti sportivi, i campi coltivati. Ma c’è un’altra distruzione di cui quasi nessuno si occupa. Nei talk show, come nelle cartine degli esperti militari, non ci sono le distruzioni delle menti, dei cuori, della razionalità politica, del pensiero. In tempo di pace si può studiare, nelle pagine di filosofi e psicoanalisti, che l’identità si costruisce sempre a due, perché il pensiero che ci costruisce in quanto esseri umani ha bisogno di rimbalzare su un’altra cultura, affinché il gioco di un incontro tra simili che avvicina, ma non stringe in un “uno” compatto, faccia nascere il pensiero, le domande, la creatività artistica o filosofica. Affinché possa insomma mantenerci su quel confine in cui l’incertezza diventa, paradossalmente, potenza creativa e quindi identità.
Appena scoppia la guerra, filosofi, poeti, psicoanalisti, vengono considerati inutili produttori di chiacchiere: persino il papa viene visto come un fastidio se non, addirittura, come il servo di una delle parti in conflitto. Ecco la guerra, che devasta non solo le case, e uccide non solo le persone, ma anche i cuori e le menti dei vivi. La guerra è fatta in nome della civiltà, ma, nello stesso tempo, distrugge le basi della civiltà.
Mi sono trovato a discutere della guerra nella ex Jugoslavia, in un contesto praticamente di famiglia, più di vent’anni fa in Croazia, poco tempo dopo la fine delle ostilità. Contestavo agli amici croati il fatto che loro, alla guerra, mettessero sempre l’aggettivo “patriottica”. La guerra era per loro domovinskirat, e in ogni città era nata una “via della guerra patriottica”, una ulicadomovinskog rata. E chiedevo loro: ma non capite che i tre capi nazionalisti hanno allo stesso modo utilizzato la guerra per legittimarsi, per creare una statualità di tipo nuovo, autoritaria, fondata su economie criminali, e che quindi in tutto ciò c’era ben poco di patriottico e resistenziale?
La risposta – di cittadini non nazionalisti e persino di sinistra – era sempre, immancabile: puoi avere anche ragione, ma quando c’è la guerra bisogna difendersi, non bisogna stare troppo a pensarci. E la mia contro-domanda era: ma difendersi da cosa se non dalla guerra che riduce tutto alla dialettica aggressore/aggredito, e toglie spazio alla razionalità politica, alla capacità di vedere con lucidità le forze in campo, i loro disegni e, soprattutto, il fatto che le guerre sono sempre fra vicini che, nei secoli, hanno vissuto in quel benefico e salutare confine che ne ha intrecciato le storie, le culture, i pensieri, i modi di fare, in quel territorio, che va da Nova Gorica a Skopje, diventato per un lungo periodo addirittura un unico Stato proprio in virtù di quell’intreccio?
Mi rendo conto che dentro la guerra è difficile mantenere la lucidità politica, la capacità di pensare, di sentire che il vicino non è così “totalmente altro”, ma è anzi quello che ha fatto di te quello che sei, perché i tuoi pensieri sono rimbalzati sui suoi. Proprio per questo, chi sta fuori dalla guerra ha il dovere di mantenere la lucidità, di continuare ad appassionarsi all’analisi politica, all’entre-deux e alla condizione tragica degli esseri umani, esposti al nulla dell’insensatezza e, per questo, capaci di pensare la social-catena, la fratellanza, istituendo la vita contro la morte.
Purtroppo la nostra è un’epoca che adora il nulla già in tempo di pace. Infatti, se la vita non ha senso, allora tanto vale dissolvere se stessi nella sbornia della droga, dei consumi compulsivi, del divertimento, dell’egoismo, dell’individualismo. La guerra è allora una continuazione del nulla con altri mezzi, e per questo è oggi così amata, nonostante i proclami a favore della pace e la retorica (un programma della Rai, che spingeva per riempire di armi l’Ucraina, iniziava un anno fa le sue trasmissioni con la Guerra di Piero di De André come sigla).
In un libretto di vent’anni fa, Franco Cassano scriveva che “la dimensione civile del pensiero di Leopardi non scompare con il disincanto dell’età matura, ma acquista una dimensione più vasta e matura, perché dallo spettacolo del nulla egli si attende una formidabile reazione, convinto che la coscienza della comune fragilità offra agli uomini l’occasione per costruire una solidarietà planetaria, mettendo fine alla cattiva infinità dei massacri” (F. Cassano, Oltre il nulla. Studio su Giacomo Leopardi, Laterza, 2003). Dobbiamo decidere, soprattutto noi che non siamo coinvolti direttamente nelle violenze della guerra: o amarla da lontano, appassionandoci alle cartine e inventando retoriche sulla resistenza, o continuare a pensare un mondo oltre il nulla.