Spostare i mobili sul Titanic che affonda. È stata una delle più frequenti metafore che rimbombavano a Riccione durante il recente congresso della Federazione nazionale della stampa (Fnsi), il sindacato unitario (vedremo ancora per quanto) dei giornalisti. Il clima, per chi lo ricordi, era quello che si respirava alle assemblee dei sindacati dei lavoratori tessili o chimici alla fine degli anni Settanta. Nella grandinata di licenziamenti e ricorso di massa alla cassa integrazione, si litigava per dare una sterzata un po’ più a destra, come capitava con maggiore frequenza, o a sinistra, al gruppo dirigente. Anche a quel tempo, le grandi aree industriali erano meno docili al vertice sindacale, che si appoggiava sul tappeto di piccole e medie aziende delle province, dove le relazioni con il padrone erano meno formali e anche meno trasparenti.
La contabilità congressuale dei giornalisti conferma questa regola: il gruppo dirigente risultato vincente è stato votato da un’alleanza non sempre limpida nelle motivazioni delle associazioni regionali minori, mentre le due aree portanti del mercato editoriale, Milano e Roma, sono all’opposizione. Ma al di là dell’aneddotica congressuale, sarebbe utile guardare ai giornalisti come al laboratorio di una crisi che riguarda settori portanti del ceto medio urbano professionale. Una crisi che sta lacerando il tessuto connettivo della categoria – con lo sfaldamento dell’Inpgi, l’Istituto autonomo previdenziale, risucchiato nel calderone dell’Inps, oppure per le difficoltà che si annunciano alla CaSaGit, la cassa autonoma di assistenza sanitaria – esponendolo a un processo di condizionamento e subordinazione da parte sia dei poteri istituzionali, come più volte minacciato da governo e partiti, sia delle proprietà editoriali, che ormai possono scegliersi contratti e controparti con cui negoziare.
Infatti, accanto alla Fnsi, sta crescendo un sottobosco di sigle e associazioni, che di fatto frantumano l’unità sindacale della categoria, creando modelli contrattuali e normativi collaterali. Solo fino a qualche anno fa, diciamo non più di dieci, il mondo del giornalismo era ancora considerato un ambito privilegiato, in cui si combinavano trattamenti e retribuzioni invidiabili. In poco tempo, il Titanic (se rimaniamo alla fin troppo abusata metafora) si è inclinato e ha cominciato ad affondare. Eppure i segnali da tempo annunciavano gli iceberg.
Siamo dinanzi a un caso di scuola, che andrebbe studiato proprio nella formazione politica. Una categoria protetta, supportata da indulgenze istituzionali, sostenuta da finanziamenti e sostegni pubblici, va a sbattere contro un tipico caso di cambio di paradigma, che trasforma le condizioni del lavoro e soprattutto le dinamiche del consumo.
Non sono tanto le macchinette digitali, infatti, ad aver sconquassato il giornalismo, quanto un processo sociale ben più profondo e radicale che ha mutato la percezione e la domanda degli utenti di informazione. Un’evoluzione che Zygmunt Bauman ha sintetizzato con la nota formula del passaggio dalla triade “lavoro di massa-consumi di massa-mass media” a un’altra, “lavori individuali-consumi personalizzati-media on demand”. Una rivoluzione copernicana, entro cui viene a esaurirsi la missione dell’informazione, che prese le mosse, cinque secoli fa, dalla stampa con i caratteri mobili, e si assestò su quel modello produttivo – redazione più tipografia – che anticipò il fordismo come linguaggio della fabbricazione.
Questo modello viene sostituito, proprio in virtù della trasformazione descritta da Bauman, da un protagonismo sociale che vede ogni individuo reclamare e praticare una via autonoma alla produzione e non solo al consumo di notizie. La rete è lo strumento tecnico di questa nuova antropologia del giornalismo, in cui gli utenti si accostano e contendono ai professionisti il primato nella selezione e diffusione di contenuti. Nel lontano 1937, Walter Benjamin, nella seconda edizione del suo celeberrimo saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, individuava i primi germi di questa molecolare affermazione del diritto a co-produrre la propria informazione nelle prime rubriche di lettere al direttore, che i giornali, fra le due guerre, cominciavano a pubblicare: “Attraverso quello spazio – scriveva Benjamin – ogni lettore si siederà accanto al direttore”. Una tendenza implacabilmente verificatasi.
Ai primi anni Ottanta, con il passaggio dal caldo al freddo come schema di produzione editoriale, il computer entra in redazione e ridisegna l’apparato giornalistico. Gradualmente, viene cancellata la tipografia, uno dei reparti di punta del movimento-operazione più avanzato, con almeno quarantamila addetti, che in pochi anni sono espulsi dal ciclo produttivo. Poi, via via che avanza l’innovazione tecnologica, la domanda di condivisione delle forme di pubblicazione trova interpreti nelle radio private, ancora nell’emittenza televisiva locale, e infine – siamo arrivati agli anni Novanta – nell’esplosione dei personal computer e nell’avvento degli smartphone. Parallelamente, si intravedono i primi segni di un cedimento del mercato editoriale.
La stampa comincia a perdere copie in edicola, più o meno omogeneamente, in tutto il mondo. Nel passaggio di secolo, scoppia la crisi dei grandi giornali americani, seguita in Europa dalla caduta sempre più accelerata delle vendite. Anche la tv comincia a soffrire per la pressione delle prime piattaforme, inizialmente satellitari, con la formula pay, poi in streaming. Il filo conduttore di questa rivisitazione del sistema della comunicazione è la personalizzazione dei contenuti: ognuno vuole accedere a flussi di notizie diverse e specializzate. Irrompono sulla scena i dati, che offrono alle piattaforme di service provider, come Google e Facebook, la possibilità di profilare milioni di utenti, dirigendosi a ognuno dei canali di comunicazione altamente personalizzati, e acquisendo dati su aspetti commerciali da vendere alla pubblicità.
Si rovescia radicalmente lo schema “da pochi a tanti”, che sorreggeva e giustificava il primato giornalistico. Ora, mediante le piattaforme di streaming e di profilazione, i redattori sono addetti alla personalizzazione dei contenuti, proletari del digitale, potremmo dire, come testimoniano i loro trattamenti salariali e la precarietà delle forme di attività.
La fase finale della mediamorfosi, come può essere definita questa evoluzione, non è stata né compresa né tanto meno governata dal sindacato, travolto dalla precarizzazione dei profili professionali. In poco tempo, accanto alle testate formali, quelle che vediamo in edicola o in tv, che occupano più o meno stabilmente ventimila professionisti, è esploso il mercato del web dove vivono almeno centoventimila artigiani e tecnici, che assicurano la ramificazione delle notizie.
In questo quadro, la figura del giornalista viene balcanizzata, producendo nei quadri garantiti la paura di essere all’ultimo giro di giostra, cosicché essi cercano protezione nell’editore, mentre i giovani precari, rancorosamente, voltano le spalle a un sindacato che non si occupa di loro, e trovano rifugio nelle proprie competenze tecniche vendute all’ingrosso. Sparisce, da questo scenario, ogni esperienza di contrattazione. Il lavoro è determinato esclusivamente dalla proprietà, e soprattutto le intelligenze e le pratiche innovative sono delegate ai grandi centri tecnologici che stanno colonizzando il mercato. Tutti gli ottantadue giornali che escono in Italia hanno appaltato la propria formazione professionale a uno specifico programma finanziato da Google, che ovviamente tiene il collare stretto sulle redazioni. Ma soprattutto i giornalisti non riescono a trovare un ruolo nei processi di automazione, che l’editore affida al fornitore di tecnologia. Se l’algoritmo non viene contrattato, tutto il resto è puro determinismo.
Una decadenza, quella dei giornalisti, che implica problemi seri per il Paese. Infatti, avere uno scarso presidio sul versante della circolazione di informazioni, non riuscendo a esprimere realtà professionali con saperi e competenze all’altezza della attuale fase storica, rende il Paese più fragile, sia nella sua competitività internazionale – che ormai si gioca sul versante delle grandi narrazioni sulla qualità ambientale, artistica e industriale – sia sul versante della stretta sicurezza nazionale, insidiata da un regime di guerra ibrida, che prevede l’interferenza di forze esterne nell’opinione pubblica nazionale.
Dunque, bisogna lavorare su una nuova strategia dell’informazione nazionale, che dia alla categoria ruolo e compiti nella vigilanza e produzione di contenuti autentici e trasparenti. Si tratta di ridisegnare il profilo del giornalista proprio alla luce del colonialismo tecnologico. Va ricomposta la vecchia scissione fra informazione e informatica, allevando una nuova leva di esperti capace di riprogrammare anche le nuove intelligenze artificiali che si stanno affacciando. Questo vale per i giornalisti, ma vale in generale per tutte quelle figure professionali e artigianali destinate alla gestione e sviluppo del nuovo sistema relazionale e assistenziale, a cominciare dai medici. Passare dall’automazione all’autonomia è oggi la priorità politica per rimettere in campo una capacità negoziale, che renda l’informazione bene comune e non più prerogativa di una casta.