Sonni agitati per il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Il decisivo appuntamento elettorale del 14 maggio, da un lato, e il terribile terremoto che ha prodotto oltre quarantamila morti, dall’altro, mettono un grande punto interrogativo sul futuro del “sultano”, ininterrottamente alla guida della Turchia dal 2014. Una presidenza caratterizzata da un approccio autoritario e integralista, che ha relegato nel passato quella laicità che aveva caratterizzato la storia della Turchia moderna, fondata da Kemal Atatürk. Ora, mentre ancora si scava tra le macerie, si fa strada un possibile rinvio dell’appuntamento elettorale. Difficile dire se questa eventualità creerà ulteriori problemi al capo dello Stato oppure no. Ma è molto probabile che le crescenti difficoltà, che stanno emergendo nella gestione del territorio dopo il terremoto, non aiuteranno il fondatore del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp). Senza contare che, con il tempo, verrebbero fuori sempre più le responsabilità di una politica incapace di frenare gli appetiti – se non connivente –di chi ha costruito al risparmio immobili che si sono sbriciolati come castelli di sabbia alle prime scosse.
In un’intervista rilasciata a “Rainews”, Federico Donelli, docente di Relazioni internazionali all’Università di Trieste, ha evidenziato come “le carenze e i rallentamenti negli interventi, ammessi dallo stesso Erdogan, potranno avere ricadute politiche”. Ma c’è di più: “Tanto la crisi economica e la situazione geopolitica regionale – sottolinea il professore –,quanto i danni del terremoto nel medio e lungo termine, portano a pensare che la situazione politica di instabilità potrebbe essere vista negativamente dall’elettorato turco”.
A non aiutare Erdogan, paradossalmente, ci sono anche i cento arresti di costruttori edili senza scrupoli, che hanno costruito edifici di carta, con tutta evidenza, grazie alla compiacenza delle stesse autorità turche, che avrebbero avuto il compito di vigilare sul corretto rispetto delle regole. Non dovrà fare troppo fatica la popolazione a capire come, verosimilmente, anche le case in cui risiedono rischiano di fare la stessa fine sotto i colpi di un altro sisma – o sotto quelli di assestamento di questo stesso, come infatti sta accadendo.
Con tutta probabilità, un rinvio importante del voto potrebbe dunque favorirlo; ma su questo punto l’opposizione, riunita nel cosiddetto Tavolo dei sei (sono appunto sei i partiti che ne fanno parte), è salda nel dire “no”. Kemal Kiliçdaroglu, presidente del Partito popolare repubblicano (Chp), il più antico partito della Turchia erede del kemalismo, probabile candidato contro Erdogan, chiede che non ci siano ritardi. Ancor più dura la posizione di Selahattin Demirtas, l’ex presidente del Partito democratico dei popoli (Hdp), formazione della sinistra filocurda, che ha definito un “golpe” un eventuale spostamento della data elettorale, qualcuno dice anche di sei mesi, se non addirittura di un anno, come ha riferito l’emittente turca “Haberturk”. Identica la posizione di Meral Aksener, fondatrice del Buon partito, nazionalista e laico. Tutte queste formazioni stanno lavorando affinché il voto slitti al massimo a giugno, ultima data possibile se si vuole restare nel contesto costituzionale.
Finora il Consiglio elettorale supremo non ha ricevuto richieste di rinvio del voto. Uno spostamento ulteriore richiederebbe un percorso parlamentare, con una maggioranza di due terzi in parlamento, e il voto favorevole di una decina di deputati dell’opposizione, che ovviamente voterebbero contro questa ipotesi.
Tornando alla scelta del candidato dell’opposizione, pur essendo accreditato Kiliçdaroglu, i giochi non sono affatto conclusi. Aksener si sarebbe opposta, perché il presidente del Chp non godrebbe di particolari chance rispetto ai due sindaci di Ankara e Istanbul, rispettivamente Mansur Yavas e Ekrem Imamoglu, dello stesso partito di Kiliçdaroglu. Ma queste dispute politiche sulle candidature – e soprattutto su quando tenere le elezioni – si scontrano con la difficoltà oggettiva di far votare le persone in un contesto in cuici sono macerie piuttosto che edifici pronti a ospitare le urne.
Per Valeria Talbot, responsabile dell’Osservatorio Medio Oriente e Nord Africa presso l’Ispi (Istituto studi politiche internazionali), “di fatto c’è un problema oggettivo nelle dieci province colpite dal terremoto. Difficilmente, da qui a metà maggio, si creeranno le condizioni per consentire alla gente di votare. Si sta discutendo della possibilità eventuale di rinviare le elezioni e, vista la situazione, potrebbe essere un’opzione. La crisi umanitaria – ha aggiunto la ricercatrice– rappresenta una sfida ulteriore per Erdogan e per il suo partito. Già nell’ultimo anno, il consenso nei confronti del presidente si era eroso, stando ai sondaggi, soprattutto a causa dell’inflazione galoppante, e l’economia è stata, da sempre, il termometro del consenso. Lo è già stato quando era primo ministro. Come nel 2019, quando a causa delle difficoltà dell’economia, il partito Akp ha perso le principali città, Istanbul e Ankara”.
Recentemente, il consenso per l’attuale capo dello Stato, più volte accusato di gravi violazioni dei diritti umani, era risalito, probabilmente a causa del suo protagonismo nella crisi russo-ucraina, fino a raggiungere il 45%, cifra che però non gli eviterebbe il ballottaggio. Com’è stato denunciato più volte, la “democrazia” turca di Erdogan (ma anche quella laica dei regimi precedenti non scherzava) si è caratterizzata per il forte accento autoritario. Per questa ragione, parlare di alternanza in Turchia non ha molto senso. Tutto è caratterizzato da un forte accentramento dei poteri, che proprio l’opposizione vorrebbe ridurre a vantaggio di un maggior ruolo del parlamento. Al riguardo, è stato presentato un programma articolato – di 240 pagine e oltre 2300 obiettivi –, grazie al quale si darebbe centralità al parlamento e maggiori poteri ai ministri, a svantaggio del presidenzialismo del “sultano”.
In questo contesto, Erdogan cerca di colpire il più possibile i partiti dell’opposizione. Prima ancora dei nemici storici – non solo dell’attuale presidente, ma anche dei suoi predecessori laici, ovvero i curdi – il già citato sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, condannato a oltre due anni di carcere per “insulto a pubblico ufficiale”. In queste ultime settimane, sono stati effettuati dei blitz contro le sedi del Dbp, il Partito democratico delle regioni, presente nel Kurdistan settentrionale. Diversi esponenti, compreso il co-presidente, sono stati arrestati. Colpito anche l’Hdp, espressione della sinistra democratica, femminista ed ecologista curda e turca. L’Hdp è la terza forza politica del parlamento turco e, malgrado tutto, correrà con un proprio candidato alle presidenziali. Nelle ultime elezioni, ha raccolto il 10% dei voti. È un partito considerato il braccio politico del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), nella lista nera degli Stati Uniti e dell’Unione europea, che lo considerano un’organizzazione terroristica. Un’accusa costata il carcere a molti esponenti dell’Hdp, tra i quali il co-presidente Selahattin Demirtas e la co-presidente Figen Yüksekdağ, oltre che a numerosi sindaci sostituiti da uomini fidati del regime. A questo attacco alle organizzazioni curde, Leitmotiv della storia della Turchia, si è aggiunta, il 10 gennaio scorso, la richiesta del procuratore capo della Corte suprema turca, Bekir Sahin, alla Corte costituzionale di chiudere direttamente il partito curdo: una richiesta che, almeno per ora, non è stata accolta.
Oltre al terremoto e a una opposizione agguerrita, Erdogan si presenterà all’appuntamento elettorale con una crisi economica pesantissima. Sia pure in frenata, l’inflazione viaggia a ritmi altissimi, che avvicinano la Turchia a Paesi come l’Argentina e il Venezuela. “L’indice dei prezzi al consumo – informa Gianluca Di Donfrascoli, redattore del “Sole24ore” ed esperto di tematiche internazionali –è aumentato lo scorso dicembre del 64,27% rispetto all’84,39 di novembre. Ma secondo l’Inflation Research Group, composto da accademici ed esperti indipendenti, il vero tasso di inflazione, in dicembre, sarebbe però ben più alto, pari al 137,55%”.
A peggiorare la situazione è stata la politica monetaria del presidente, che ha tentato di sconfiggere l’inflazione con bassi tassi di interesse, contrariamente a quanto attuano tutte le Banche centrali, che alzano il costo del denaro per frenare i prezzi. Erdogan ha voluto imporre questa scelta improvvida alla Banca centrale turca, costretta a cambiare cinque governatori in otto anni. Il presidente contava di compensare, così, la crisi economica con un alto tasso di crescita. E se è vero che, nel 2021 era stato registrato un netto di 11,4%, il più alto degli ultimi sessant’anni, questo poi si è rapidamente abbassato arrivando, nel 2022, al 5,3%, e successivamente, secondo stime dell’Organizzazione per la sicurezza e lo sviluppo economico (Ocse), al 3%.
Con tutte queste criticità, la sfida per colui che ha islamizzato il Paese più laico dell’area mediorientale sarà complicata – per usare un eufemismo –, e resta inoltre l’interrogativo su come reagirà il “dittatore”, come lo chiamò l’ex premier italiano Mario Draghi, all’eventuale uscita di scena nazionale e internazionale.