Diciamo subito che il libro di Stefano Fassina non ci è piaciuto già a partire dal titolo: Il mestiere della Sinistra (Castelvecchi). Per l’autore, la sinistra sembra essere un’élite di dirigenti che dovrebbe rispondere ai bisogni di un non meglio precisato popolo. Tesi fondamentale del libro è che la Sinistra – con la maiuscola, come se fosse una sorta di entità astratta o una schiera di prodi e illuminati paladini del popolo – ha smesso di fare il proprio mestiere, ha tradito la sua missione di difesa del lavoro abbracciando le ragioni del consensus neoliberale. Fassina non si discosta così da un canone interpretativo ampiamente utilizzato negli ultimi due decenni per analizzare la crisi delle sinistre: quello basato sulla categoria del tradimento.
Questo tipo di interpretazione disconosce che la crisi delle sinistre ha origine alla fine degli anni Settanta, in tutta Europa, con l’implosione del modello socialdemocratico. Il modello fu vincente, ma lo fu grazie alla pesante rigidità istituzionale che concedeva priorità all’istituzione sull’individuo: per tenere insieme sviluppo economico e integrazione sociale, esso doveva fare accettare un ordine istituito. Ma quell’ordine non fu in grado di contenere le spinte di innovazione sociale che esso stesso aveva reso possibili. La rigidità del sistema risentiva, infatti, della richiesta di nuovi diritti che, a loro volta, non si adeguavano all’integrazione tra individuo e collettivo; essa veniva sfidata dal bisogno di esprimere la propria creatività fuori e dentro il lavoro, ove peraltro il valore fondamentale era l’aumento della produzione e non certo la possibilità di essere se stessi (ecco, per esempio, la grande questione dell’alienazione e delle macchine, che Fassina non sfiora neppure quando parla di lavoro). Si aprì allora, nel cuore del compromesso tra capitale lavoro, la questione della libertà, che mise in fibrillazione le sinistre europee, comuniste e socialiste.
La debolezza del libro di Fassina, dunque, sta nel fatto che l’autore non fa risalire la crisi all’implosione del modello socialdemocratico, ma al tradimento della sinistra che si sarebbe lasciata attrarre dal neoliberalismo e da un europeismo assoluto e ideologico. Tale europeismo avrebbe aperto le porte alla libera circolazione delle merci e dei capitali, causando dumping sociale e fiscale all’interno di un’Unione sempre più allargata e con diversi livelli di Stato sociale e di protezione dei lavoratori. Per questo motivo, Fassina adotta, seppure in termini soft, gran parte della retorica sovranista, secondo la quale il disarmo politico e culturale delle ragioni del lavoro deriverebbe dal processo di progressivo allargamento dell’Europa, e dal costituirsi di una sorta di “supercasta” sovranazionale, che avrebbe avuto mano libera nell’imporre i dogmi del liberismo.
Fassina ha certamente ragione nel sostenere l’insostenibilità sociale del libero movimento di capitali, merci e servizi in Stati profondamente difformi tra loro, per livello di reddito pro-capite, condizioni di lavoro e sistemi di welfare. Ma è sbagliata la richiesta di una chiusura protezionistica nei confronti dei Paesi dell’Est per contrastare il dumping fiscale e sociale. E questo per due motivi. In primo luogo, compito di un rinnovato movimento operaio europeo dovrebbe essere quello di creare un blocco sociale continentale che tenga assieme tutti i lavoratori, a ovest come a est, affinché disporre della necessaria forza per innalzare i livelli di welfare e retribuzione ovunque. Inoltre – e questo Fassina lo sa benissimo – le ragioni dello Stato sociale sono in crisi anche nell’Europa occidentale, come lo sono le organizzazioni dei lavoratori.
Allo stesso modo, non è possibile essere ambigui, come l’autore purtroppo è, nei confronti del fenomeno migratorio. Se è giusto criticare l’ideologia no border, non è possibile porre come obiettivo della sinistra quello di limitare le migrazioni con il labile argomento dell’ “aiutiamoli a casa loro”, peraltro ampiamente utilizzato dalla destra. Il rafforzamento della cooperazione internazionale, auspicato da Fassina, richiederebbe un sovvertimento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro che, come non è all’ordine del giorno nei Paesi ricchi, nemmeno può esserlo a livello globale nel rapporto tra nord e sud del mondo. E ci pare deprecabile giustificare la xenofobia che dovrebbe essere addebitata, secondo Fassina, alla condizione sociale svantaggiata di chi non può comprendere i valori del cosmopolitismo per scarsa istruzione o perché costretto a pagare sulla propria pelle la concorrenza al ribasso degli immigrati sul mercato del lavoro. Una tale annotazione, da parte dell’autore, è sorprendente e contraddittoria rispetto ai suoi stessi intendimenti. Se è vero, infatti, che esiste un popolo tradito dalla sinistra, allora dovrebbe essere anche vero che quel popolo – proprio in quanto tradito – dovrebbe avere in sé quei valori di solidarietà, di comprensione della sofferenza e di internazionalismo caratteristici della sinistra. Se invece tale popolo non esiste, sarebbe forse più opportuno considerare che tutti i ceti – dai più ricchi e istruiti a quelli meno abbienti e meno istruiti – sono oggi unificati dall’egoismo e dall’individualismo, nonché dall’illusione che i consumi – garantiti dal capitalismo postmoderno in forme fino a qualche decennio fa impensabili – possano appagare l’essere umano e tacitare le domande di senso sul mistero della vita che ciascuno porta con sé.
Rimane allora inevasa, nel libro di Fassina, la grande questione della sinistra attuale, italiana ed europea. Com’è possibile ribaltare l’attuale rapporto di forza fra capitale e lavoro se, in tutta Europa, sono gli stessi lavoratori a non voler partecipare all’azione politica, a non considerare più la politica come campo della costruzione di sé e del senso della propria vita? Non basta pensare che vi sia un popolo deluso. Chi interpreta la crisi epocale della sinistra tramite la categoria del tradimento disconosce il fatto che il neoliberalismo ha esercitato una forte egemonia non tanto e non solo sugli intellettuali o sulle classi dirigenti, ma soprattutto sui ceti popolari come risposta alla crisi del modello socialdemocratico, alla sua rigidità, e alle sempre crescenti richieste di libertà che aveva generato con il suo stesso paradossale successo.
Il capitalismo postmoderno dell’epoca neoliberale ha goduto del consenso popolare perché sembrava rispondere a un bisogno di libertà: sembrava cioè liberare dalla partecipazione tipica dei corpi intermedi, dalla cultura come riflessione faticosa sul mondo e sull’umano, da raggiungere tramite l’autorità dei maestri e degli intellettuali, dalla democrazia come cimento quotidiano senza certezza, perfino tragico nel suo essere infondato. Per questo, oggi è vano e ingenuo proporre una sorta di sovranismo costituzionale, con tanto di retorica repubblicana sulla partecipazione dei ceti subalterni, affinché possano riprendere il controllo dello Stato.
Potrebbe forse venirci in aiuto la riflessione di un vecchio maestro: Pietro Barcellona. In un libro di trentacinque anni fa – L’individualismo proprietario –, quando nessuno parlava di tradimento e ancora era in vita il Pci, il filosofo catanese aveva denunciato quel nesso tra consumismo sfrenato e individualismo che stava annientando l’umano e il suo desiderio di capire assieme agli altri, nella polis, il significato della sua presenza nel mondo. Ci pare che la sua conclusione possa e debba essere anche la nostra, indicandoci la via di una più profonda riflessione antropologica per capire la crisi della sinistra: “Occorre adesso un nuovo pensiero che assuma la sofferenza umana e la miseria dei rapporti come punto di rottura degli equilibri sistemici. Le nuove forme del dolore umano sono forse l’annuncio di un cataclisma della persona che può aprire la strada a un diverso itinerario dell’emancipazione”.