Poche vicende sono rivelatrici del domicilio reale del potere politico attuale (il famoso “pilota automatico” caro a Mario Draghi) come quella del superbonus, stroncato dallo stop al mercato dei crediti fiscali imposto dal governo Meloni dopo una lunga serie di interventi di modifica che avevano già messo a dura prova il settore dell’edilizia, grazie a questo e altri bonus uno dei motori trainanti della ripresa economica post Covid. Tutti ricordano le polemiche sulle “truffe”, sui prezzi gonfiati, sui lavori mai realizzati ma fatturati (a spese dello Stato). Fu il direttore dell’Agenzia delle entrate a chiudere il caso chiarendo al parlamento che fra i diversi bonus edilizi il superbonus incideva marginalmente, per il 3 per cento delle frodi accertate. E del resto, qualcuno ha mai visto un dibattito sulla necessità di chiudere tutti gli ospedali alla luce dei tanti casi di malasanità? O sull’urgenza di sciogliere qualche apparato dello Stato i cui uomini hanno commesso reati anche gravissimi? Nemmeno le organizzazioni neofasciste che assaltano le sedi sindacali, come sappiamo, vengono chiuse. Quanto alle speculazioni sui prezzi dei materiali per le ristrutturazioni ecologiche, uno Stato che non ha i mezzi per intervenire qualche domanda se la dovrebbe fare.
Invece, ecco che, incurante dei rischi che il rovesciamento delle sue esplicite promesse elettorali comporta per la sua credibilità, Giorgia Meloni ha sposato la linea del suo ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, e ha tuonato: il superbonus è “un disastro” e costa “duemila euro a ogni italiano”. Giuseppe Conte ha replicato al governo spiegando che quello che Giorgetti chiama “bubbone” in realtà “è un Pil cresciuto nel 2021 del 6,7 per cento e nel 2022 del 3,9 per cento, numeri che in Italia non si vedevano da 35 anni”. Non sarà certo questa l’occasione in cui si romperà la coalizione governativa, ma anche in questo caso è da rilevare lo smarcamento di Forza Italia, che continua a perseguire una agenda unitaria un po’ intermittente.
Sull’efficacia e le conseguenze della misura, a lungo sbandierata come un successo del governo Conte 2 dal Movimento 5 Selle, si è combattuta una guerra di cifre che tradisce la debole credibilità delle istituzioni “neutrali” che dovrebbero soccorrere lo Stato nelle scelte orientate dalla politica. Aveva fatto scalpore lo scorso dicembre uno studio presentato dalla Fondazione nazionale dei commercialisti, che di fatto sbugiardava i calcoli della Ragioneria generale dello Stato sul “costo” reale del provvedimento. Per i commercialisti “l’effetto fiscale indotto dagli investimenti correlati al superbonus 110% è pari al 43,3% del costo lordo per lo Stato. In pratica, per ogni euro speso dallo Stato in bonus edilizi, ne ritornano sotto forma di maggiori imposte 43,3 centesimi, così che il costo netto per lo Stato è pari a 56,7 centesimi”. Secondo le stime della Rgs, messe nero su bianco nelle relazioni tecniche di accompagnamento ai diversi provvedimenti di legge, “il ritorno stimato è pari a non più di 5 centesimi e il costo netto diventa di circa 95 centesimi”. Non si tratta di un sereno dissenso accademico, di una correzione di poco conto.
In sostanza, le analisi della Rgs, sulle quali si basano le decisioni del potere esecutivo e di quello legislativo, per l’organismo dei dottori commercialisti non sono veritiere. Di un certo rilievo, a proposito della presunta affidabilità dei “tecnici”, anche l’esito della recente audizione al Senato di Luca Ascoli, direttore statistiche della finanza pubblica di Eurostat. “Impropriamente si è parlato di effetto enorme sul debito pubblico, stimato in 110 miliardi di euro”, attribuendo l’equivoco a una “sintesi di stampa” delle dichiarazioni di Giovanni Spalletta, direttore generale del Dipartimento delle finanze del Mef. “Non vi è stato finora alcun impatto sul debito, né vi sarà”, ha precisato Ascoli, indirettamente smentendo la tesi della presidente del Consiglio dei “duemila euro” di debito accollati a tutti i cittadini neonati compresi. Per l’Enea grazie al superbonus sono stati mobilitati 65,2 miliardi di investimenti in due anni, mentre l’Associazione delle imprese costruttrici denuncia il rischio fallimento per 25mila imprese, 90mila cantieri a rischio, 130mila possibili disoccupati in più senza lo sblocco dei crediti incagliati. Evidentemente qualche beneficio la misura deve averlo portato.
Si torna quindi alla consueta domanda: perché tanta ostilità a una misura che ha avuto certamente un effetto positivo su un’economia che ha incassato colpi durissimi dalla sequenza Covid-guerra-inflazione? “Terzogiornale” se n’è occupato in più occasioni (ad esempio un anno fa qui) scrivendo che il vero tema era la creazione, attraverso il sistema della cedibilità illimitata dei crediti, di una moneta fiscale. “(…) è piuttosto improbabile – scrivevamo – che i tecnici attualmente in sella a palazzo Chigi e al ministero dell’Economia, così come le istituzioni politiche e finanziarie europee, non siano state sfiorate dal dubbio che il superbonus rappresenti una potenziale via di fuga dalle stringenti maglie della moneta unica e delle regole europee sui conti pubblici”. Lettura confermata in più occasioni dal ministro Giorgetti: “Il credito d’imposta – ha ribadito in una recente dichiarazione – non è moneta. La cessione del credito non è un diritto, ma una possibilità per chi vuole investire”. Tradotto: chi ha soldi e può anticiparli (e “capienza” fiscale sufficiente per assorbire gli sconti sulle imposte) viene finanziato dallo Stato. Chi non li ha può andare a guardare i cantieri degli altri.