Esiste un partito per una nuova idea di servizio pubblico multimediale? Oppure dobbiamo sempre e solo omologarci a partiti, benché di sinistra, che misurano la strategia industriale della comunicazione con i nomi e cognomi dei dirigenti? Quanto sta accadendo in queste ore, al vertice della Rai, riproduce l’umiliante cerimonia di occupazione del potere da parte della maggioranza del momento; ma si trova, per pura coincidenza, a maneggiare temi nodali per la stessa sicurezza del Paese.
Uno spunto ce lo potrebbe offrire l’arte, in particolare la smagliante mostra aperta a Milano sull’opera di Hieronymus Bosch. Guardando quei quadri grotteschi, e stridenti con il senso comune del suo tempo, potremmo cogliere il modo in cui si reagì a un altro passaggio brusco della storia, a quel tornante del Quattrocento con cui si arrivava allo scintillante Rinascimento: si era appena giunti in America, nell’indifferenza generale, e qualcuno già percepiva l’incombere di una nuova epoca, in cui scienza e calcolo avrebbero sostituito ogni riproduzione classica della realtà, come accadde nel lungo secolo della matematica, aperto con il rogo di Giordano Bruno e proseguito, fra guerre di religione e di commercio, con le grandi opere di Galilei, Leibniz, Pascal, Newton. Nasceva la borghesia degli scambi e della contabilità, mentre declinavano i poteri verticali del papato e degli imperi.
Una transizione non troppo dissimile da quella che ci sta ora accerchiando, e vede la sostituzione degli assetti verticali delle élite tradizionali con un formicolante agitarsi di individui, che trovano strumenti e volontà per contestare i primati dei mediatori. Centrale, in questo processo, è la trasformazione del broadcasting, la modalità tipica della tv generalista, che procede con trasmissioni da uno a tanti, con il browsing, ossia la navigazione individuale ipertestuale in rete.
Sono gli effetti di questa rivoluzione, che porta poi a surriscaldarsi il dibattito attorno al vertice di Viale Mazzini. Certo, la solita bulimia di chi vuole prendersi tutto rimane fondamentale, ma sono oggettivamente in ballo altre motivazioni, anche perché basterebbe molto meno per sintonizzare il “cavallo” della Rai con gli ordini di scuderia del governo.
Due sono le questioni che Sanremo ha reso ineludibili: la transizione del modello di servizio pubblico, ossia il passaggio da sistema di massa a un sistema di navigazione individuale, in rete; e il ruolo di un servizio pubblico, in uno scenario in cui la comunicazione digitale afferisce non più solo allo scontro politico interno, quanto alla sicurezza internazionale e alla sovranità di un Paese. L’unica cosa che sicuramente non si può immaginare è che queste questioni riguardino i dirigenti e non gli assetti organizzativi dell’azienda pubblica. Si vede, invece, una tendenza a cercare di derubricare tutto alla semplice aggiunta di un ufficio dati, che dovrebbe raccogliere e analizzare le informazioni, adeguando così il sistema radiotelevisivo pubblico al mondo della rete.
Proprio quanto sta accadendo in Ucraina, con quella che è stata definita la prima guerra algoritmica della storia, ci dice che ormai il sistema della comunicazione multimediale non è più un semplice servizio, che completa la gestione del potere da parte dei gruppi prevalenti di un Paese, ma è il campo di battaglia fra potenze a livello globale. L’informazione è diventata logistica militare, e si procede – lo ha teorizzato esplicitamente il capo di stato maggiore russo Gerasimov – interferendo nel senso comune di un Paese avversario.
Il presidio di questo scacchiere, ossia la capacità di tenere alta la soglia di interferenza da parte di soggetti ostili nel dibattito pubblico, diventa una missione primaria per un servizio pubblico che voglia rimanere centrale e indispensabile. Questo significa – lo ha mostrato la solita e inossidabile Bbc – disperdersi nella rete, diventando una presenza che attraversa e irrompe nelle piattaforme prevalenti, combinando un’offerta di contenuti con una sorveglianza sui flussi esterni.
Per fare questo, ovviamente, l’azienda deve cambiare radicalmente piattaforma funzionale e geometrie produttive, trasformandosi da sistema esclusivo di broadcasting, in cui si procede da uno a tanti, in una ramificazione di motori di contenuti che attivano conversazioni individuali con ogni singolo utente. La base di Rai Play offre più di un’occasione per procedere in questa mediamorfosi, con alle spalle un’esperienza e un patrimonio di linguaggi e contenuti. La diversità di un servizio pubblico in rete sta proprio nella sua volontà di costruire un nuovo patto sociale con gli utenti, basato sulla piena tracciabilità e trasparenza dell’uso dei dati, e al tempo stesso su una continua rinegoziazione degli automatismi con soggetti quali, per esempio, le comunità locali e i centri di ricerca universitari, oppure le categorie professionali, che debbono poter condividere proprio il patrimonio delle informazioni acquisite dal servizio pubblico per competere e contestare la centralità delle piattaforme commerciali.
Dall’altra parte, il sistema generalista deve inevitabilmente semplificarsi, unificando la fabbrica, i centri di tutte le produzioni, in modalità digitale, e integrando la distribuzione che deve essere più complementare e meno competitiva al suo interno. Ripensare così l’offerta sulla base di grandi appuntamenti nazionali, di cui Sanremo è una delle opportunità, legando poi i palinsesti quotidiani con proposte meno ossessionate dall’audience e più complementari con i contenuti reticolari.
In questa logica, è evidente che il “capitale umano” deve diventare causa ed effetto della trasformazione, importando nella pancia dell’azienda più competenze digitali, lungo tutta la filiera della progettazione, prototipazione, gestione e aggiornamento di dispositivi e sistemi digitali che possano accompagnare in rete l’ampia offerta aziendale. Mentre andrebbero finalmente attuate le strategie di collegamento con i centri di produzione e creatività territoriali, dando concretezza all’ambizione per cui la Rai deve far lavorare il Paese e non se stessa.
Ora ci si può rendere conto del velleitarismo di una proposta che implica una relazione del tutto inedita fra azienda e istituzioni, più mediata dalle strategie globali del Paese in termini di cybersecurity e di competizione internazionale, anziché da una miope propaganda interna. Ma constatare, in una fase in cui ci si interroga sull’utilità della politica, che vi possano essere orientamenti che reclamano un partito che non c’è, potrebbe aiutare quelli che ci sono e rimangono in attesa di un elettorato che non c’è più.