Recentemente, l’Ecuador è stato chiamato alle urne per rinnovare i governi locali e per rispondere agli otto quesiti referendari che il governo di Guillermo Lasso ha proposto per modificare la Costituzione su temi inerenti alla sicurezza, alla riforma della politica e alla difesa dell’ambiente. Prima di diventare, il 24 maggio del 2021, il primo presidente di destra in quasi vent’anni, Lasso aveva fatto l’imprenditore e il banchiere. Membro dell’Opus Dei, contrario all’aborto in ogni caso, in politica è stato governatore del Guayas, dal 1998 al 1999, e poi brevemente ministro dell’Economia durante la presidenza di Jamil Mahuad, nel 1999. Al di là di tutto ciò, è ricordato per essere stato per una ventina d’anni presidente esecutivo del Banco Guayaquil, e di essersi fatto conoscere per la sua opposizione alla presidenza di Rafael Correa. Con lo scopo di liberare risorse finanziarie per lo Stato, Lasso aveva annunciato di voler privatizzare tre raffinerie, alcune autostrade, l’azienda pubblica di telecomunicazioni e il Banco del Pacifico; e inoltre l’esenzione fiscale per trent’anni degli investimenti nel settore del turismo, particolarmente colpito dalla pandemia. Per dare ali al suo programma, ha fondato un partito politico di orientamento liberale e conservatore, che ha preso il nome di Creando oportunidades (Creo).
Quando Guillermo Lasso ha deciso di convocare il referendum, a novembre dello scorso anno, il suo gradimento era inferiore al 30%. Nel mese di febbraio di quest’anno, la sua popolarità è scesa a meno del 20%. Il motivo dello scarso consenso di cui gode si spiega con la convinzione diffusa, tra gli ecuadoriani, che il presidente “non faccia nulla”. Da quando sta al governo, ha dovuto affrontare una maggioranza di opposizione al Congresso, guidata dai partiti Revolución ciudadana, dell’ex presidente Rafael Correa (2007-2017), e Pachakutik, braccio politico del movimento indigeno. La conseguenza è che il parlamento gli ha bloccato quasi tutti i progetti di gestione, e convocare un referendum con un così basso livello di sostegno popolare ha comportato che il governo corresse un alto rischio di essere sconfitto, come poi è accaduto.
Un altro probabile errore è stato quello di far combaciare referendum ed elezioni amministrative, consentendo che i partiti di opposizione potessero giocare sul grande scontento popolare nei confronti del governo centrale per fare eleggere i propri candidati nei Comuni e nelle prefetture, e di spingere per il no ai quesiti referendari, anche al di là del loro stesso contenuto, solo per indebolire l’esecutivo.
Le elezioni regionali hanno così visto vincitori i candidati dell’ex presidente Correa nella capitale Quito e a Guayaquil, le due città più importanti del Paese. Il risultato si è sommato alla sorpresa della bocciatura dei quesiti referendari. E alla fine ha segnato la débâcle di Lasso e la richiesta, da parte dell’opposizione, di elezioni anticipate. Gli otto quesiti referendari erano stati pensati dal governo con il fine di aumentare la propria popolarità tra gli ecuadoriani, e con lo scopo di indebolire le opposizioni. Tanto è vero che alcune delle tematiche poste a referendum erano di grande gradimento popolare, riferendosi alla possibilità di estradare i narcotrafficanti e di ridurre il numero dei parlamentari. La sicura vittoria del sì sembrava confermata anche dai vari sondaggi condotti durante la campagna elettorale, nonché da una rilevazione demoscopica fatta da un giornale all’uscita dei seggi. Ciò nonostante, il responso delle urne è stato un netto no a tutti gli otto quesiti, il che per il governo è equivalso a una sonora sconfitta.
Ormai lontano il ricordo della vittoriosa campagna per la vaccinazione contro il Covid, e dissipato l’80% del sostegno popolare guadagnato salvando l’Ecuador con i suoi morti abbandonati per strada e le bare di cartone, Lasso non ha saputo far tesoro degli alti prezzi dei prodotti petroliferi di cui il Paese è un grande esportatore, e si è dimostrato incapace nel contrastare la consistente disoccupazione e la preoccupante ondata di insicurezza determinata dalla criminalità. Quando poi gli sarebbe convenuto, non ha fatto ricorso alla cosiddetta muerte cruzada, il meccanismo che può essere attivato con suo decreto, o con un voto parlamentare, che permette di sciogliere anticipatamente il Congresso e di indire elezioni entro sei mesi. Se questa scelta gli avrebbe consentito allora di vincere a man bassa, all’indomani del risultato elettorale di febbraio, il suo appello all’unità per risolvere i problemi urgenti del Paese è caduto nel nulla, sbeffeggiato da Rafael Correa, che ha accolto “un grande accordo nazionale” ma “per l’anticipo delle elezioni”, da cui Lasso uscirebbe massacrato.
Oltre a essere stato battuto al referendum, il partito Creo ha perso anche l’unica prefettura provinciale che governava. E se nel 2019 guidava trentadue Comuni, ora ne amministra solo dieci. Per completare il quadro, rimane da ricordare che il risultato delle amministrative, la cui elezione era a turno unico, ha segnato la sconfitta non solo di Lasso, ma anche di altre formazioni affini come quelle del Partido social cristiano, e di Izquierda democratica, una formazione social-liberale. Nel frattempo l’aria è cambiata: emergono scandali che vincolano a un capomafia albanese un influente funzionario, cognato di Lasso, riguardo a possibili finanziamenti illegali della campagna del presidente. Inoltre ieri, 14 febbraio, il ministro dell’Agricoltura ha presentato le dimissioni dopo essere stato menzionato nelle rivelazioni di un portale digitale sulla stessa vicenda, mentre il Congresso sta aprendo un giudizio contro l’ex ministra della Salute.
Se la tornata elettorale ha segnato la disfatta della destra di Lasso, a sinistra Revolución ciudadana, il partito di Correa, ha conquistato otto prefetture su ventitré, tra cui le più importanti: Pichincha, Azuay, Manabì e Guayas. Oltre ad alcuni grossi Comuni, tra cui Quito e Guayaquil. Il successo della formazione di Correa, un po’ com’è stato per Lula nelle ultime elezioni, si spiega con il ricordo di un governo che aveva potuto garantire una qualche forma di prosperità grazie agli alti prezzi delle materie prime. Un risultato oscurato, in seguito, dalle condanne a pene definitive per corruzione dello stesso Correa e di altri a lui vicini.
L’ex presidente, condannato a otto anni di detenzione, ha condotto la campagna prima dal Belgio, dove risiede, poi da Città del Messico. Ora la vittoria della sua parte potrebbe offrirgli la possibilità del ritorno in Ecuador, ma la strada è in salita. E lo potrebbe mettere davanti alla scelta tra tentare un ricorso straordinario per la revisione davanti alla Corte nazionale di giustizia, affinché i suoi processi siano annullati in quanto il reato non sussiste, e quella di denunciare qualche aspetto di violazione del processo, in modo da interessare la Corte costituzionale che, in tal caso, cancellerebbe la sentenza. Quasi impraticabile, invece, l’amnistia del Congresso, non prevista per i casi come quello di Correa, tanto più che sarebbero necessari 92 voti, che i correisti non erano riusciti a mettere assieme nemmeno quando hanno tentato di destituire Lasso nel 2022.
Allora erano scoppiate varie proteste contro le politiche economiche di Lasso, innescate dall’aumento dei prezzi del carburante e del cibo. Il presidente aveva reagito autorizzando le forze di polizia a usare la forza contro i manifestanti, e rifiutandosi di avviare colloqui di pace con i leader delle proteste indigene per porre fine alle manifestazioni. In seguito a ciò, diversi membri dell’Assemblea nazionale avevano chiesto il suo impeachment, con un processo iniziato il 28 giugno 2022 e concluso senza il numero necessario di voti per estrometterlo.
Tornando al presente, di sicuro la recente vittoria spingerà Correa a tentare il tutto per tutto pur di tornare in gioco per le presidenziali del 2025. Tanto più che in recenti interviste alla stampa si è detto certo di essere eletto, qualora avesse la possibilità di ripresentarsi. E se anche alla fine non potesse correre di persona, Correa potrà rivendicare il ruolo di king maker, sapendo però che, in questo caso, in un eventuale ballottaggio la sua formazione potrebbe risultare più debole, per l’alto tasso di rifiuto che la sua persona suscita nel Paese.
Del tutto impensabile, invece, una possibile alleanza tra Revolución ciudadana e l’altro grande vincitore di queste elezioni, il Movimiento de unidad plurinacional Pachakutik, espressione della Confederazione delle nazionalità indigene (Conaie). Perché, se si possono prendere come esempio le scorse elezioni, in nessuna delle 221 circoscrizioni municipali c’è stata un’alleanza tra i due schieramenti, mentre, nelle precedenti presidenziali, Pachakutik aveva criticato radicalmente le posizioni estrattiviste di Correa, tanto da candidare alla presidenza Yaku Pérez, un “attivista anti-minerario”, coinvolto nelle proteste contro i tentativi di privatizzazione dell’acqua e il progetto minerario di Quimsacocha. Pérez era allora arrivato terzo al primo turno, e quindi escluso dal ballottaggio, nonostante il suo schieramento avesse denunciato brogli a favore del candidato di Correa per escluderlo dalla corsa contro Lasso.
In quest’ultima tornata amministrativa, Pachakutik passa da cinque a sette prefetture, anche se si tratta in genere delle prefetture più piccole, tranne quella di Tungurahua, nella Sierra Central. Ciò detto, oltre a queste due formazioni maggiori, le elezioni hanno premiato una galassia di partiti locali di difficile collocazione, ma che, da un decennio a questa parte, con il suo aumento, segnala crisi profonda dei maggiori partiti e movimenti nazionali. E merita anche ricordare come, in queste ultime elezioni, i voti nulli o bianchi siano stati cinque milioni, quasi il triplo del candidato più votato. Un vasto bacino di disillusione e sfiducia, in cui l’apparire di un volto nuovo venuto dal nulla, ma che contasse su concrete risorse per finanziarsi la campagna elettorale, potrebbe scompigliare le carte e fare la differenza.