La sconfitta delle opposizioni alle elezioni regionali in Lazio e in Lombardia era certamente “annunciata” (come scrive Guido Ruotolo su “terzogiornale” del 10 febbraio), ed era ugualmente facilmente prevedibile l’alta percentuale di astensioni, anche se nessuna delle due cose, forse, nella misura in cui si è verificata. Certamente, si possono addurre alcune attenuanti: per quanto riguarda l’astensione, superiore di circa il 30% a quella delle precedenti regionali, il fatto che queste si erano tenute, nel 2018, in concomitanza con le politiche; e, per quanto riguarda la disfatta delle opposizioni, si deve tenere presente che una di esse, cioè il Movimento 5 Stelle, si è sempre rivelata molto più debole alle amministrative (comunali o regionali) che alle politiche. Queste considerazioni, tuttavia, non riducono minimamente il valore, anche simbolico, della disfatta, e inducono quindi a ricercarne le cause, che non sono però, a mio avviso, quelle che Ruotolo indicava nel suo articolo. Naturalmente, è facile criticare ex post quello che è stato sostenuto ex ante: però alcune delle analisi di Ruotolo apparivano errate anche prima dello svolgimento delle elezioni. Vorrei dunque riflettere sull’argomento, soffermandomi maggiormente sulla Lombardia, regione in cui abito da quasi cinquant’anni.
Se un marziano avesse dovuto fare delle previsioni sull’esito delle elezioni regionali lombarde, avrebbe dato la giunta uscente, presieduta dal leghista Fontana, come perdente di sicuro, per vari motivi, tra i quali la gestione scriteriata della pandemia nella sua prima ondata, l’inefficienza dei trasporti pubblici, in particolare Trenord (l’azienda ferroviaria regionale frutto della fusione tra Ferrovie Nord Milano e linee regionali di Trenitalia), e, soprattutto, lo stato spaventoso della sanità pubblica, che costringe ad attese interminabili, con il risultato inevitabile, per chi può permetterselo, di essere costretti a rivolgersi al privato. Eppure, Fontana ha stravinto: perché?
A parere di Ruotolo (e di vari altri), perché non c’è stata “unità delle opposizioni”. Ruotolo scrive che “Pd, 5 Stelle, verdi e sinistra del ‘campo largo’ non si sono neppure interrogati sulla necessità di individuare un candidato moderato (non necessariamente Moratti) per strappare la Lombardia alla destra”. Anzitutto, invertirei l’ordine delle parole: invece che “non necessariamente Moratti”, direi “necessariamente non Moratti”. Quest’ultima, infatti, era un candidato assolutamente non credibile, neppure per chi vorrebbe una sinistra efficientista, come lo sponsor della Moratti, cioè Carlo Calenda: pretesa “manager” e “tecnica”, ha mostrato solo incapacità in tutti i ruoli che ha rivestito, da ministra dell’Istruzione (l’unica cosa che è stata capace di fare è eliminare l’aggettivo “pubblica” dal nome del ministero stesso), a sindaco di Milano, fino alla presidenza dell’Ubi, che si è lasciata sfilare sotto il naso (l’Ubi, non la presidenza). Ma fino a quando si sosterrà che la sinistra può conquistare la Lombardia solo proponendo un candidato “moderato”?
Da quando esiste l’elezione diretta del presidente della Regione, tutti i candidati che la “sinistra” ha proposto come alternativi a quelli della destra sono sempre stati dei “moderati” (dal luogotenente di Mario Segni, Diego Masi, nel 1995, all’ex dipendente di Berlusconi, Giorgio Gori, nel 2018), eppure hanno sempre perso; e, come mostrano i numeri, lo stesso sarebbe successo questa volta: la somma dei voti di Majorino e della Moratti rimane inferiore di circa il 10% a quelli ottenuti da Fontana. La destra vince, in Lombardia, sia perché è fortemente radicata nei territori rurali e montani, sia perché la sinistra non riesce più a esprimere alternative credibili nelle zone operaie, o ex operaie, come Sesto S. Giovanni. Passando al Lazio, si può pensare che Conte avrebbe potuto sostenere la candidatura D’Amato, il quale così avrebbe potuto avere qualche probabilità di vittoria (smentita, però, anche in questo caso, dai risultati effettivi): ma cosa avrebbe fatto il duo Calenda-Renzi di fronte a una simile dichiarazione di sostegno? Ci siamo forse dimenticati dell’operazione fatta da Calenda l’estate scorsa, quando Letta decise di allearsi anche con Sinistra italiana e con i verdi?
Cosa può insegnare tutto questo? Certamente, che l’unità della sinistra manca e dovrebbe essere ricostituita; tuttavia, “unità della sinistra” non equivale necessariamente a “unità delle opposizioni” (questo è lapalissiano: non penso che Fratelli d’Italia e Sinistra italiana avrebbero potuto unirsi, anche se entrambe erano all’opposizione del governo Draghi). Il problema da porsi è dunque quello di dove siano i limiti della sinistra e cosa significhi fare una politica di sinistra.
Sotto questo aspetto, sembra impossibile continuare a collocare nella sinistra, anche “moderata”, personaggi come Calenda: tali personaggi dicono spesso di avere Macron come loro modello (o piuttosto ne sono una caricatura), ma chi ha il coraggio, oggi, di definire Macron di sinistra? Al capo opposto stanno i 5 Stelle che, da quanto scrive Ruotolo, sembrano i principali responsabili, in quanto “sono diventati un acceleratore del processo di disgregazione del Pd e delle schegge della sinistra plurale (verdi, ambientalisti, sinistra comunista)”.
I risultati delle regionali in Lazio e Lombardia hanno smentito questa previsione di Ruotolo, in quanto i 5 Stelle hanno abbondantemente perso, mentre il Pd ha sostanzialmente tenuto; ma è facile ragionare con il senno di poi, e inoltre, questo non pare il problema, che è piuttosto quello della progressiva perdita di consensi del Pd tra i ceti popolari. I 5 Stelle (su cui è senz’altro giusto mantenere molte riserve e non riporre eccessive speranze) hanno semplicemente raccolto, in alcuni casi, l’eredità della disgregazione prodotta dalla politica insensata del Pd, ben poco contrastata dalle altre forze della “sinistra plurale” (si pensi alla debolezza dei verdi e della sinistra comunista, dimostrata anche dalla tragicomica vicenda Soumahoro). Alle regionali, in Lazio e in Lombardia, questa eredità si è, probabilmente, dispersa nell’astensione: occorre dunque che il Pd e la “sinistra plurale” (dalla quale non escluderei i 5 Stelle), recuperino buona parte degli astenuti. E questo non potrà avvenire che facendo una politica diversa, che non disprezzi alcuni provvedimenti, come il “reddito di cittadinanza”, o il “decreto dignità”, osteggiati in un primo tempo dal Pd solo perché proposti dai 5 Stelle (e, aggiungo, non accettando supinamente le posizioni “atlantiste” sulla guerra in Ucraina, le sue conseguenze e i suoi pericoli – ma questo è un altro discorso).