Il rosicamento di Salvini intorno alle melodie costituzionali del festival di Sanremo dovrebbe, ovviamente, farci considerare come una buona cosa la grande sagra musicale della Rai. Oggettivamente, sia la presenza di Mattarella con il sermone di Benigni, sia le spigolature della coppia Ferragni-Fedez hanno avuto un unico bersaglio: la svolta reazionaria minacciata dal governo. Ma l’impegno democratico, che traspare da Sanremo, non può non farci considerare, sconsolatamente, il deserto politico che circonda quel manipolo di musicanti.
Attorno a loro, solo le armate avversarie: governo, istituzioni, e massa d’opinione che, al di là degli indici di ascolto, non dà alcun segno di risveglio. Fort Alamo è solo – verrebbe da dire. Tanto più che, attorno al contenitore della tv generalista che ospita l’evento musicale, si è messa ormai in movimento la marea digitale che sta ingoiando persino il mastodonte della Rai. I dati – per come vengono oggi analizzati – ci dicono che la parte più significativa non sono tanto i circa undici milioni di ascoltatori medi, quanto quegli undici milioni di interventi digitali che, con varia forma, hanno fatto da sciame a quanto accadeva al teatro Ariston.
La strabiliante cifra di cinquantaquattro milioni di like, piovuti sulle diverse pagine dei protagonisti, con l’hashtag #sanremorai, ha simboleggiato una presa di possesso dell’emblema della cultura nazional-popolare, quale è appunto il festival, da parte del popolo della rete. Nelle pieghe di questa mediamorfosi abbiamo assistito, come esemplificazione della trasformazione economica che il passaggio dal materiale all’immateriale comporta, anche sul mercato mediatico, al fenomeno Ferragni, in cui la nota influencer, con l’intraprendente marito Fedez, ha potuto capitalizzare tre milioni e mezzo di contatti, accumulando profili e dati da vendersi poi ai suoi sponsor, grazie alla Rai, riuscendo anche a farsi pagare per la sua comparsata.
Al di là degli aspetti frivoli, i vestiti-manifesto e le finte uscite polemiche con il governo, l’elemento da considerare è che Sanremo, con la presenza della Ferragni, sta sperimentando la trasformazione dell’intero sistema pubblicitario in un gigantesco modello di profilazione di massa. I mass media nascono fra le due guerre, coeve del fordismo industriale. Secondo quanto recitava il noto aforisma, con cui Ford vendeva le sue auto – “da oggi ognuno può scegliere l’auto che più preferisce, purché sia il modello T nera”, perché era solo quello che inizialmente fabbricava –, era il produttore che doveva convincere il compratore a desiderare esattamente ciò che lui vendeva. E lo faceva attraverso il sistema mediatico: prima con il cinema e poi con la tv, che interferivano con i desideri dei singoli, influendo sulle masse. Come diceva Sherlock Holmes, “l’individuo è un enigma insondabile, ma mettilo in una massa e diventa una certezza matematica”. Un principio, questo, che ha guidato l’intera parabola della cultura di massa lungo l’intero Novecento. Oggi quel meccanismo si ribalta: estrai un individuo dalla massa, profilalo, e avrai uno degli infiniti componenti di una moltitudine da guidare. Questo, del resto, è stata Cambridge Analytica che ha sovvertito ogni pratica di relazione e comunicazione, affidando ai monopolisti dei dati le chiavi di quel controllo sociale preventivo, di cui ci hanno avvertiti Michel Foucault e, di recente, Shoshana Zuboff.
La transizione fra la tv e la rete, che si sta consumando sul palcoscenico di Sanremo, rende ineludibile anche a livello più esteso e popolare la concretizzazione di questo nuovo processo di egemonia individuale. Lo spettacolo diventa il pretesto per accumulare dati individuali che, combinati fra loro, producono quella profilazione dettagliata in grado di rendere pochi soggetti i programmatori di una pressione psicologica su una moltitudine di individui, arrivando così ad alterare il gioco democratico e dialettico.
Sanremo diventa qualcosa di più di una semplice piazza sulla quale si misurano i guru della comunicazione: siamo in presenza di un laboratorio che si sta sostituendo alla democrazia rappresentativa, sovrapponendo alla dialettica d’opinione il sondaggio sulle tendenze. Il servizio pubblico, se vuole davvero marcare la sua differenza, dovrebbe programmare la mossa del cavallo: rendere trasparenti e condivisi i flussi dei dati digitali, smascherando gli apprendisti stregoni che stanno accumulando munizioni per sparare contro la Costituzione celebrata sullo schermo. Se si può fare, perché non si fa?