Sullo sfondo delle agitazioni di queste settimane contro il progetto governativo di riforma delle pensioni (che vorrebbe portare l’età pensionabile da 62 a 64 anni), si ragiona in Francia sul significato del lavoro e del tempo libero. È la conseguenza – ripetiamolo – di un clima politico molto diverso tra il Paese d’oltralpe e il nostro (vedi qui). Se in Francia c’è ancora una sinistra in campo – all’opposizione di un governo centrista tutto sommato non troppo differente da quello italiano precedente di Draghi, al netto del pasticcio delle “larghe intese” –, se in quel Paese esistono delle garanzie come, poniamo, un salario minimo, se infine l’estrema destra non è già arrivata al governo come in Italia, è più facile che si apra uno spazio per una riflessione non semplicemente occasionale sui destini del lavoro nella società contemporanea.
Ne dà conto un articolo apparso su “Le Monde” del 2 febbraio scorso, a firma di Julie Carriat, che definisce la riforma delle pensioni “quasi un’opportunità” per la gauche. Tra parentesi, niente di simile avvenne in Italia al tempo della Fornero, con la cosiddetta sinistra, e gli stessi sindacati, nella trappola di altre “larghe intese”. A fronte di un ministro dell’Interno francese – un ceffo a nome Gérald Darmanin –, che ha denunciato il “gauchismo pigro e bobo”, che nutrirebbe un “profondo disprezzo per il valore lavoro”, la sinistra (forte anche del vecchio testo del genero di Marx, Paul Lafargue, sul Diritto all’ozio) può replicare che il senso della storia consiste in una progressiva riduzione del tempo di lavoro. In altre parole, ci sarà anche un “diritto al lavoro” da proclamare, ma questo non è, non può essere, il centro del discorso. Sta invece in una liberazione dal lavoro il succo di un movimento sociale avanzato. Del resto, già il Partito socialista si era mosso in questo senso negli anni Novanta, con la legge sulle trentacinque ore introdotta dal governo Jospin, sia pure in seguito in vario modo anestetizzata.
Oggi, dunque, nell’opposizione alla riforma delle pensioni, che vorrebbe allungare il tempo di lavoro, si assiste alla ripresa di una tematica caratterizzante della sinistra. Certo, i termini in cui essa può essere riproposta sono mutati rispetto all’epoca di Lafargue. Bisogna interrogarsi, intanto, su che cosa significhi “tempo libero”. Se si immagina un esercito di pensionati in giro per il mondo grazie a un turismo a basso prezzo, come già si è visto prima della pandemia e anche dopo, ciò significherebbe più che altro condannarsi a un surriscaldamento globale più intenso, e quindi a una più rapida fine del pianeta. La qualità del tempo libero, che dovrebbe essere piuttosto un tempo liberato dalla folle pressione consumista, è in proposito decisiva. Il cambiamento del modello di sviluppo, con un riorientamento dei consumi in maniera non individualistica ma in direzione del soddisfacimento dei bisogni sociali (per esempio, più treni, anche locali, e meno automobili private), è la premessa indispensabile per un godimento della vita che non sia quello imposto dall’attuale mercato capitalistico dei divertimenti.
Resta comunque improponibile oggi un’etica del lavoro (o il “lavorare di più per guadagnare di più”, che fu uno slogan della presidenza Sarkozy in Francia) tanto per quei giovani che per quegli anziani che non pensano che l’intera loro vita debba esaurirsi nel vecchio ergastolo del posto fisso. Come ha messo bene in luce Michele Mezza, nei suoi articoli su “terzogiornale” (in particolare, vedi qui), sono gli stessi processi di automazione, sempre più diffusi nella comunicazione e nella produzione sociale, che spingono obiettivamente verso una liberazione dal lavoro. Il che, un tempo, poteva apparire pura e semplice utopia. Ed è la stessa impellente necessità di un mutamento del modello di sviluppo, se si vuole evitare la definitiva catastrofe ambientale, che spingerebbe a una politica che vada nel senso esattamente opposto a quello di un prolungamento della vita lavorativa. Va ripreso da qui il filo di una riflessione a sinistra. Anche da noi.