“C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico”, direbbe il poeta leggendo le cronache di queste settimane. Il caso di Alfredo Cospito, l’anarchico recluso al 41/bis in sciopero della fame e quindi in precarie condizioni di salute, sta facendo affiorare una realtà probabilmente destinata a non esaurirsi rapidamente. La protesta innescata dall’anarchico si sta caricando di significati oscuri e ambigui, che vedono i gruppi malavitosi accodarsi a una spinta contro l’istituto del 41/bis, che ha stroncato quell’attività di collegamento che i criminali riuscirebbero a gestire attraverso la porosità delle carceri nazionali. Ma il caso personale di Cospito è diventato testimonial di una protesta più generale; ed è davvero singolare come proprio l’interessato, che avrebbe ragioni e anche convenienza a separare la propria vicenda da quella dei boss mafiosi, stia facendo di tutto per trasformare le legittime richieste di associazioni e intellettuali, perché sia assicurato un trattamento più umano e garantista a un detenuto quale l’anarchico, in una crociata contro l’idea stessa di carcerazione speciale.
Ma in questa spirale, in cui ovviamente le contorsioni di un governo di destra appaiono ancora più sospette e pelose, come lo sguaiato duo Delmastro-Donzelli ha dimostrato, alzando un polverone indecente contro la trasparente azione dei parlamentari del Pd che volevano sincerarsi direttamente delle condizioni di salute di Cospito, magari per coprire preventivamente collusioni e contiguità che componenti anche nazionali del partito della Meloni hanno mostrato rispetto alla malavita organizzata, emerge anche un dato più squisitamente politico, su cui sarebbe utile aprire una riflessione.
La rapida diffusione delle proteste degli anarchici mostra come una realtà insospettabile, quale appunto il movimento che si richiama alla più antica forma di ribellione della sinistra, ridotto a dimensioni minuscole nel Paese, abbia trovato alimento e adesioni di un certo spessore. Sembra quasi, ed è qui il qualcosa d’antico che si scorge nel sole pascoliano, che si riproduca uno scenario politico e ideologico affine a quello della seconda metà dell’Ottocento, quando l’ancora nascente e del tutto flebile movimento marxista era soverchiato da una ramificata attività di gruppi anarchici, capaci di canalizzare le prime robuste proteste sociali, che combinavano la rabbia dei ceti più miseri alla forma di prima coscienza di classe delle realtà operaie e proletarie.
Michail Bakunin, Peter Kropotkin, Errico Malatesta avevano dato alle stampe saggi che – con grande lucidità e in alcuni casi preveggenza – coglievano il nesso fra la protesta sociale e la trasformazione dello Stato. Proprio Malatesta, con L’anarchia e la sua filosofia, legava indissolubilmente l’agitazione anarchica alla coscienza operaia che cominciava a scavare nei cunicoli delle prime grandi fabbriche: a Genova, Torino, Napoli. Per almeno trent’anni, diciamo dall’unità italiana (1861) fino agli inizi dell’ultimo decennio del secolo, a guidare l’insorgenza di un movimento popolare che si nutriva anche della mobilitazione risorgimentale e delle implicazioni sociali delle lotte che investivano i vertici del nuovo regno d’Italia, furono gli anarchici, che imposero una visione priva di ogni infrastruttura di potere centrale, con un esplicito rifiuto di un partito che fosse – come poi fu – una macchina politica che riprogrammava la logica centralistica di un capitalismo autoritario e assolutista.
In questo vuoto strategico – in cui faticosamente sedimentavano le sollecitazioni che da Londra trasmetteva Marx che, alternando una visione lineare dello scontro sociale, teorizzata nel Capitale, con le suggestioni ipertestuali di un superamento tecnologico del lavoro come unico motore sociale nei Grundrisse, dava sostanza e consapevolezza a quello che sarà poi, nel Novecento, il grande negoziatore nei confronti del capitalismo – gli anarchici avevano campo libero per innestare ribellioni locali e giustificare i loro atti dimostrativi estremi. Senza partito, e senza un programma che declinasse proteste con conquiste contrattuali, il movimento non aveva che la fiammata momentanea come strumento sia di comunicazione sia di organizzazione delle proprie energie. Non a caso, appena cominciò a prendere forma la piattaforma politica organizzata del movimento del lavoro – con le società di mutuo soccorso, le leghe dei lavoratori, e i primi spezzoni di quello che nel 1892 sarà il Partito socialista – il consenso per i gruppi dell’anarchia cominciò a scemare, e, nell’isolamento che li circondava, maturarono le scelte terroristiche fino al famoso assassinio del re Umberto a Monza, da parte di Bresci.
Questa è storia nota, che si studia persino a scuola – ma che torna di un’imprevedibile attualità nel tempo di Internet. Non può certo sfuggire oggi la coincidenza che vede tornare in campo proprio quel movimento che credevamo archiviato dalla storia molto tempo fa; mentre declina, quasi scomponendosi nei suoi elementi primari, quella visione del mondo e capacità di contrastare il controllo capitalistico che il movimento operaio di matrice marxista ha espresso per quasi un secolo e mezzo, fino alle soglie del nuovo millennio.
Paradossalmente, sembra che la strategia disgregatrice delle basi sociali dell’antagonismo operaio, o più genericamente del lavoro, condotta dal capitalismo con la sua incessante azione di trasformazione e smembramento dei legami sociali indotti dalle nuove forme di produzione immateriale, mentre debilita, fino a renderle del tutto inadeguate, le diverse opzioni che il mondo del lavoro ha sviluppato nella sua storia – dall’esperienza socialdemocratica a quella del laburismo, al populismo di sinistra sudamericano, fino alle eredità del comunismo, desertificando lo scenario politico a sinistra – stia incoraggiando visioni che nascono proprio dalla disarticolazione degli apparati produttivi e amministrativi.
La prima constatazione da fare è che, in un quadro in cui le tradizionali modalità in cui venivano rappresentate le opzioni dei ceti più marginali e diseredati, quali appunto il movimento sindacale e le diverse forme partito a sinistra, si aprono spazi e opportunità per ogni genere di suggestione che si proponga come alternativa o surrogato di quella dinamica negoziale. Lo abbiamo visto, ovviamente in tutt’altri termini, con il recupero dei 5 Stelle, che hanno raccolto mandati e consensi delusi dall’impotenza del Pd e di altre formazioni socialdemocratiche o più radicali. Lo stiamo vedendo ora, con i primi sussulti di movimenti di protesta, in particolare fra i giovani dei centri sociali o di alcune università, che si sono mobilitati sul caso Cospito. Il vuoto genera mostri, potremmo dire, prevedendo che in futuro si moltiplicheranno le proposte per colmare appunto il cratere lasciato dalla dissoluzione dei partiti tradizionali.
Ma il tema che forse potremmo usare per recuperare una lezione ancora più severa – ma sicuramente più utile – riguarda la capacità di contrapporsi alla nuova realtà del capitalismo cognitivo, rispetto al quale la sinistra del lavoro mostra la sua inadeguatezza e una totale incapacità di parlare ai nuovi mondi sociali che si stanno formando. Ci riferiamo a quella forma di dominio economico e sociale basato sui processi di automazione dei comportamenti, resa possibile da una straordinaria potenza di calcolo in grado di riprodurre le funzioni più discrezionali, quali l’elaborazione di testi o video, e che sono anche in grado di veicolare emozioni e sentimenti. La base di questa realtà, che proprio in questi giorni sta deflagrando con un nuovo dispositivo quale ChatGPT, è quella poderosa e continua produzione di dati, che si sprigiona nella relazione fra esseri umani, e fra questi e ogni aspetto della natura e degli artifici che la popolano, e che il sistema digitale ha trovato il modo di rendere visibile ed elaborabile, determinando, con la conoscenza di ogni nostro gesto e nostra più intima emozione, quel “capitalismo della sorveglianza” di cui ha scritto Shoshana Zubof. Questa cosiddetta infosfera, come la definisce Luciano Floridi – in cui si concatenano dati, informazioni e flussi di contenuti, che raddoppiano ogni due giorni l’intero scibile umano creato dalla nostra specie sul pianeta dall’avvento dei primi ominidi fino al 2004, data emblematica che con l’avvento dei social accelera freneticamente il corso del sapere – è oggi la grande fabbrica del valore, in cui ogni lemma dei nostri linguaggi corrisponde a un fattore che genera plusvalore, proprio mediante la sua circolazione.
Questo gigantesco coacervo di informazioni ed elaborazioni viene inopinatamente privatizzato e confiscato da pochi centri proprietari che, con l’alone della scapigliatura geniale, tipica dell’antropologia della Silicon Valley, hanno instaurato un ferreo controllo sull’intera umanità. La stessa guerra in Ucraina ha mostrato come proprio la potenza algoritmica nel raccogliere e distribuire informazioni, profilando il nemico sulla base dei dati che è costretto a cedere nelle sue attività di spostamento e di connessione, abbia sostituito il combattimento tradizionale come forma di contrapposizione geopolitica. Una trasformazione che ha avuto come implicazione addirittura una privatizzazione del conflitto militare, mediante il protagonismo di compagnie quali quella di Elon Musk con i suoi diciottomila satelliti di connessione e georeferenziazione delle truppe, o di Microsoft, che monitora e decifra la comunicazione delle forze russe.
In entrambi i casi vediamo come l’utopia dell’anarchia – l’abolizione dello Stato e il libero gioco delle comunità – abbia un presupposto almeno nel primo passaggio, con la subordinazione degli apparati statali nei confronti dei grandi potentati tecnologici. In questa dinamica un ruolo fondamentale è stato giocato dalla spinta autonoma e individuale a emanciparsi da ogni vincolo e gerarchia, che ha accompagnato grandi masse nella fuoriuscita dalla disciplina produttiva della fabbrica.
La transizione fra la catena di montaggio e le nuove forme di attività, che vedono centrali più che il lavoro manifatturiero l’attitudine linguistica e relazionale nell’attribuire identità e racconto al prodotto o servizio, cambia l’oggetto dell’analisi e dell’organizzazione anticapitalistica. Mentre per due secoli l’idea rivoluzionaria, o anche solo sindacale, di contrasto allo sfruttamento di fabbrica si adeguava al modello della fabbrica stessa, con una logica verticale e di combattimento che il partito leninista aveva esemplificato, concentrando nell’organizzazione della protesta esattamente il corpo sociale che la produzione fordista concentrava nei capannoni dell’impresa, oggi ci troviamo in un ambiente assolutamente rarefatto, in cui l’automazione della produzione sottrae alla sinistra sia il luogo sia i protagonisti dello scontro di potere.
Lungo questo crinale, si dissolvono sia l’esperienza sovietica, in cui il vecchio patto sociale fra l’operaio della grande azienda e il burocrate del sistema di controllo è affondato sotto la pressione di un pulviscolare tessuto metropolitano, che chiede più autonomia e individualismo, sia quelle socialdemocratiche, in cui l’aspirazione di cittadinanza e protezione è ormai archiviata e superata dalla competizione singola – di chi vuole diventare élite anche da povero. Soprattutto, si cancella l’intero codice conflittuale che produceva quelle forme di organizzazione e rappresentanza che hanno costituito l’infrastruttura dell’antagonismo sociale che ha costretto il capitalismo industriale a condividere risorse e opportunità. Il logoramento delle forme partito e sindacato tradizionali porta al collasso attuale, che vede sbriciolarsi ogni residua testimonianza di quel mondo, e lascia spazio a visioni anche eccentriche che mostrano, comunque, una capacità di sintonia maggiore con le nuove dimensioni immateriali.
Proprio in questi anni, nell’indifferenza di una sinistra autoreferenziale che considera i propri scaffali bibliografici gli unici riferimenti culturali legittimi, sono apparsi contributi che hanno dato forza a una presenza anarchica proprio nei gangli della società digitale. Si tratta di elaborazioni, tutte di matrice anglosassone, o specificamente americana, dove meno ingombrante è l’esperienza dell’ortodossia marxista, ma dove più acuto è il bisogno di una base teorica nuova e dinamica.
Pensiamo a contributi quali Post-Anarchism: A Reader di Saul Newman, un testo che raccoglie i contributi di autori che sviluppano un nuovo approccio al pensiero anarchico, che tiene conto delle sfide poste dalla globalizzazione, dalla tecnologia e dalla crisi dello Stato-nazione; oppure ad Anarchism and its Aspirations di Cindy Milstein, un saggio che esplora le radici dell’anarchismo e di come esso possa essere adattato ai problemi attuali – come la crisi climatica, la disuguaglianza economica e la crescente militarizzazione delle società; o ancora a Black Flame: The Revolutionary Class Politics of Anarchism and Syndicalism di Michael Schmidt e Lucien van der Walt, e Towards a Communalism di J.K. Gibson-Graham: due riflessioni che si misurano con le forme estreme di neocapitalismo cognitivo, assumendo ambiente e organizzazione statale come paradigmi della trasformazione sociale, basata sulla riappropriazione delle risorse tecnologiche da parte del mosaico di comunità sociali. Siamo al confine di teorizzazioni che poco hanno a che fare con la storia del movimento operaio, e assolutamente nulla con il dibattito interno ai reduci della sinistra italiana, ma esprimono capacità e ambizioni di rielaborare la sfida al capitalismo proprietario, a partire dai punti alti dello scontro, rimodulando proprio la capacità di decentramento e di protagonismo individuale che le tecnologie digitali abilitano.
Sarebbe certo utile, di fronte al prolungarsi di questa protesta e rivendicazionismo che il caso Cospito ha innestato, poter ragionare più freddamente sulle opportunità che nuove elaborazioni possano proporci per meglio affrontare il passaggio che abbiamo di fronte. Nelle testimonianze citate, si coglie come elemento assolutamente distintivo, dalle liturgie del confronto in corso a sinistra, la libertà di pensiero rispetto a totem come la centralità del lavoro, che viene sostituita da una rivendicazione del reddito, e la forma partito, considerata sempre più come reticolo di produzione e condivisione di saperi, che non vincola gli aderenti ad apparati e centri dirigenti permanenti. Sono temi che devono essere attentamente riformulati alla luce di una maturazione ancora lontana, ma sicuramente rompono i limiti di una tradizione che ormai si dimostra del tutto inadeguata.
In particolare, la sfida dei nuovi dispositivi di intelligenza artificiale che si annuncia, sposta il conflitto direttamente sui nodi della ricerca e delle forme in cui controllare quella che si chiama oggi tecnovigilanza, la potenza dei sistemi nel proprio intimo corredo etico valoriale. Un filone peraltro non estraneo alle radici più significative del movimento operaio italiano: pensiamo alle tesi per il comunismo del “manifesto”, nelle quali si poneva con grade lucidità, e certo senza sbandamenti insurrezionalisti, il tema di una maturità del salto di sistema proprio alla luce dei processi innovativi; o, per tornare più indietro, all’esperienza di “Quaderni rossi”, con le prime ricerche di Romano Alquati sul lavoro cognitivo all’Olivetti, e – per richiamarci a una figura mitica della tradizione sindacale – a quelle intuizioni di Bruno Trentin che, nel 1997, nel suo La città del lavoro: sinistra e crisi del fordismo (Feltrinelli), arrivava a scrivere: “Se riuscirà a prendere pienamente coscienza di questa sua lunga subalternità culturale al fordismo e al taylorismo la sinistra potrà coraggiosamente elaborarne il lutto”. Ed è triste che debbano essere gli anarchici a riportarci su questa linea.