“Due popoli due Stati”. Sono trent’anni che ascoltiamo questo mantra dopo gli accordi di Oslo del 1993 tra il premier israeliano, Yitzhak Rabin, e il leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, Yasser Arafat. Intesa benedetta dall’allora presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, a cui non ha fatto seguito nulla. Men che mai si potrà tornare a sperare qualcosa con l’attuale governo di estrema destra presieduto da Benjamin Netanyahu. Ma il segretario di Stato americano Antony J. Blinken – arrivato in Medio Oriente in uno scenario di rinnovata tensione con l’Iran –, esponente di un governo che guarda con preoccupazione all’attuale esecutivo dello Stato ebraico, ha voluto ribadire la necessità di raggiungere questo obiettivo.
L’arrivo del capo della diplomazia statunitense ha coinciso con una preoccupante escalation che ha insanguinato un’area geografica che, da oltre settant’anni, non conosce la parola pace. Anzitutto il raid israeliano di giovedì 26 gennaio in un campo profughi di Jenin, nel corso del quale sono stati uccisi nove palestinesi, presunti terroristi jihadisti, più un altro assassinato a Gerusalemme. Si sarebbe trattato, secondo diverse fonti giornalistiche, del raid più violento compiuto da Israele nei territori occupati degli ultimi anni. Ricordiamo che dall’inizio dell’anno sono stati uccisi trentadue palestinesi, tra cui donne e bambini, centinaia sono rimasti feriti e centinaia arrestati. Immediatamente l’Autorità palestinese (Anp), presieduta da Abu Mazen, ha indetto tre giorni di lutto e comunicato, come già fatto nel passato senza mai metterla in pratica, la decisione di voler mettere la parola fine a ogni collaborazione con Tel Aviv finalizzata a garantire la sicurezza nell’area. Ma l’Anp è ormai un organismo corrotto e sclerotizzato, che non riesce più a controllare un territorio nelle mani dei gruppi armati, sia islamisti sia laici.
Dopo l’inevitabile lancio di missili dalla Striscia di Gaza, controllata da Hamas, si sono verificati due gravi attentati. Nel primo, sono rimasti uccisi sette israeliani mentre stavano uscendo da una sinagoga a Gerusalemme Est. Il gruppo è stato colpito dal fuoco di un palestinese di 21 anni, esattamente a Neve Yaakov, un quartiere a una decina di chilometri a nord del centro della città, in cui vivono molti israeliani ultraortodossi. Un attentato considerato ancor più odioso perché verificatosi – denuncia il segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres – nella giornata della Memoria. Nel secondo, un giovanissimo arabo di appena 13 anni ha sparato contro due persone nell’area di Silwan, spesso teatro di sanguinosi conflitti tra le due parti, ferendole.
La risposta dell’esecutivo israeliano è stata il sequestro delle abitazioni dei responsabili degli attacchi armati, più la revoca della carta d’identità e del diritto di residenza per i loro familiari. Blinken non ha esitato a condannare questi violenti attentati, ma – sorpresa – lo ha fatto senza tentennamenti anche per i civili palestinesi “innocenti”, parole sue, uccisi nel raid israeliano che abbiamo ricordato. Ovviamente, provocando il disappunto delle autorità israeliane.
L’indefinito protrarsi di questa situazione ha portato ai minimi storici il consenso sulla creazione di uno Stato palestinese in convivenza con quello israeliano. Secondo dati riportati dall’Ispi (Istituto studi politiche internazionali) soltanto il 33% dei palestinesi crede che questa soluzione sia ancora attuale contro il 34% degli israeliani. Per questi ultimi, solo il 12% crede che i palestinesi vogliano la pace, mentre il 75% dei palestinesi pensa che Israele non accetterà mai l’esistenza di un’entità statuale palestinese. Il peggiore esecutivo della storia dello Stato ebraico (vedi qui) ha colto immediatamente la palla al balzo per riconfermare ciò che era nelle sue intenzioni, ovvero rendere più facile per le cittadine e i cittadini israeliani l’acquisto e il possesso di armi finalizzato a difendersi contro gli attacchi palestinesi,buttando sciaguratamente altra benzina sul fuoco di un incendio dal quale non trarrebbe vantaggio nessuno, tanto meno gli stessi israeliani.
La preoccupazione per la deriva antidemocratica e razzista del governo del leader del Likud è, inoltre, fortemente legata alla prevista riforma del sistema giudiziario, che vedrà asservita la magistratura al potere politico limitando quello della Corte Suprema nel rigettare le decisioni del governo o le leggi della Knesset. Ma non è tutto. Secondo il governatore della Banca centrale e oltre duecentocinquanta economisti, questa riforma potrebbe danneggiare l’economia del Paese in quanto disincentiverebbe gli investimenti perché, a quel punto, sarebbe solo la politica a controllare la legalità o meno di qualsiasi iniziativa, che avrà dunque il via libera a seconda delle convenienze o amicizie politiche. Com’è noto, questa legge è fortemente voluta da Netanyahu ancora sotto inchiesta per i reati di frode, corruzione e abuso d’ufficio.
Ancora una volta, Blinken ha stigmatizzato questa decisione suscitando la reazione piccata del ministro della Giustizia, Yariv Levin, secondo cui “Israele non prende lezioni di democrazia da nessuno”. Non la pensa così chi, ogni sabato, organizza manifestazioni di protesta, che vedono scendere in piazza almeno 150mila persone. Ma – precisa sempre l’Ispi –“dalle rivendicazioni della piazza, è assente o quasi la questione palestinese, che le divisioni della sinistra e il fallimento degli accordi di Oslo hanno contribuito a relegare in fondo alle preoccupazioni dell’opinione pubblica israeliana. Anche per questo, alle manifestazioni non partecipano i cittadini arabi israeliani, per cui protestare contro ‘l’erosione della democrazia in Israele’ suona come un’amara beffa”.
Il riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese dimostra, se ce ne fosse stato bisogno, che gli Accordi di Abramo – i quali nel 2020, sotto la presidenza Trump, hanno normalizzato i rapporti tra Israele, Emirati arabi uniti, Arabia saudita e Bahrein –non sono serviti a raggiungere l’obiettivo di far cadere nel dimenticatoio il dramma palestinese. Per Emanuele Rossi, giornalista della testata online “Formiche.net” ed esperto dell’area mediorientale “gli Accordi sembravano parzialmente marginalizzare la questione palestinese, tenendola da parte come secondaria, in una sorta di limbo che in futuro si sarebbe assestata su uno status quo, perché dimenticata da tutti se non dai palestinesi. Non sta andando esattamente così – precisa Rossi – perché nel percorso di emancipazione culturale, che alcune popolazioni arabe come quelle del Golfo stanno vivendo, il destino della Palestina occupa ancora un ruolo simbolico. È parte di un pensiero in sviluppo, che mira a una sovranità araba: occuparsi dei palestinesi è sentito come un dovere ideologico, per dimostrare di non essere del tutto contaminati dal mondo globalizzato. È – sottolinea il giornalista –qualcosa che si è visto in Qatar”.
Come se non bastasse, ecco riaffiorare anche la tensione tra Israele e Iran con l’attacco mediante droni contro una fabbrica di armi a Isfahan, considerata dai servizi occidentali “un enorme successo”. L’azione militare non è in realtà stata rivendicata da Tel Aviv, ma il “Wall Street Journal” conferma la matrice israeliana dell’attacco, che arriva in un momento particolarmente problematico per lo Stato teocratico, scosso da settimane da imponenti proteste della popolazione, stufa di vivere sotto il tallone di un regime oscurantista e assassino. Se a questo aggiungiamo che l’Iran è accusato di fornire droni a Mosca utilizzati nella guerra contro l’Ucraina, il quadro è completo.