Il dibattito congressuale del Pd non gode, come si usa dire, di buona stampa: anzi, abbondano toni sarcastici o di commiserazione, commenti molto superficiali e irrispettosi, luoghi comuni triti e ritriti (per esempio, sulla “insana” propensione del partito a dividersi e a litigare, come se fosse un dato antropologico). Il Pd, certo, ci ha messo del suo: in particolare, congegnando un percorso che di “costituente” ha avuto ben poco. Le battute sui “tempi biblici”, però, non hanno senso: il vero problema è che, da fine ottobre a oggi, non c’è stato uno straccio di documento scritto su cui il partito, e chi è attorno al partito, abbia potuto discutere. E quindi l’unico terreno di confronto sono stati i profili e i nomi dei candidati, e poi quel che comincia a emergere dai loro discorsi: ora, finalmente, arriveranno i testi delle mozioni (Cuperlo ha bruciato i tempi, presentando la sua prima dei termini previsti) e si potranno meglio valutare le diverse posizioni.
Ha ragione lo stesso Cuperlo, quando nel suo intervento all’Assemblea nazionale del 22 gennaio, ha reagito con orgoglio alle rappresentazioni di maniera: “Non siamo un’armata Brancaleone!”.In effetti, cominciano a delinearsi questioni vere e serie, a emergere le differenze tra i candidati. E ci sono aspetti anche curiosi e significativi da sottolineare: certo, questioni da “addetti ai lavori”, ma i lettori di queste colonne, se sono arrivati fin qui nella lettura, vuol dire che sono interessati politicamente e intellettualmente alle sorti del Pd e della sinistra!
Una delle questioni più interessanti da approfondire è quella del “Nuovo manifesto dei valori del partito”. Si è rivelato un gran pasticcio, come avevamo sottolineato in un precedente articolo (vedi qui), l’idea di affidarne la stesura a un comitato di 87 membri, in gran parte esponenti del partito attentamente distribuiti tra le varie correnti, e per circa un terzo da intellettuali esterni (ciascuno con le proprie idee, naturalmente). Alla fine, per evitare una clamorosa lacerazione, hanno finito per mettere la polvere sotto il tappeto: il nuovo testo, frutto della mediazione di Letta e Speranza, è stato approvato all’unanimità, e rimandato comunque all’approvazione definitiva dei nuovi organismi. Ma è stato anche detto che il nuovo non “abrogava” il vecchio. Un minuto dopo, è iniziato il gioco delle interpretazioni, con tutta un’“anima” del partito pronta a rivendicare la perdurante “validità” del Manifesto del 2008, e altri invece a rimarcare le novità della stesura ora approvata (che in effetti ci sono, e rilevanti, su molti punti). E così è emersa la dimostrazione plastica della paralisi identitaria di questo partito: non lo si può fare in questa sede, ma una lettura comparata dei due manifesti mostra notevoli differenze. Citiamo solo due esempi: la questione della “vocazione maggioritaria”, che nel testo del 2008 era molto ampia ed enfatica, e si intrecciava all’idea di un “partito del Paese” dalla chiara matrice interclassista; e che ora è citata una sola volta, en passant, nell’accezione più debole (di fatto, la banale ambizione di un partito a essere “maggioranza!). O ancora, una questione più rilevante: il modo in cui era prospettato, nel 2008, il ruolo del mercato (con una visione dello “Stato minimo”), e quello in cui se ne parla oggi.
Nell’epoca dei “due Papi”, si potrebbe ironizzare: il Pd ha due “carte”, ma qual è quella nuova e, soprattutto, quella “buona”? Il riferimento alla Chiesa non è puramente casuale: è accaduto infatti che, nello sciame dei commenti che hanno seguito l’Assemblea del Pd, Stefano Ceccanti (costituzionalista, già deputato, già dirigente della Fuci, l’associazione degli universitari cattolici, poi esponente storico del primo nucleo “veltroniano”, che diede il proprio imprinting al nuovo partito e oggi massimo defensor fidei dell’ortodossia originaria) se ne uscisse fuori con un’ardita analogia storica e dottrinale. Alla domanda su come fosse possibile considerare “validi” due testi, evidentemente diversi, Ceccanti rispondeva che era bensì possibile, perché possiamo applicare lo stesso metodo della “continuità ermeneutica” che la Chiesa adotta nell’interpretazione delle proprie formulazioni dottrinarie: ovvero, un continuum di interpretazioni-adattamenti dei Testi, in cui non si rinnegano mai le precedenti letture. Incuriosito, io che non sono un cultore della materia, ho cercato qualche verifica e sono risalito alle fonti: il concetto è stato elaborato da molti illustri teologi, ma ha trovato la sua più nota espressione in un discorso di papa Ratzinger, tenuto alla Curia romana il 22 dicembre 2005, a proposito dell’eredità del Concilio Vaticano II. È opportuno riportarne un passaggio, molto interessante:
“Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare ‘ermeneutica della discontinuità e della rottura’; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’‘ermeneutica della riforma’, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino”.
Ora, si può ben dire che la Chiesa, dall’alto della sua millenaria Sapienza, può permettersi di adottare questa visione, sentire il respiro dei tempi lunghi della storia, guardare con indulgenza alla variabilità, alla mutevolezza e alla fragilità delle opinioni umane (gli “oneri del giudizio”, per citare una categoria di John Rawls). Ed è ben evidente che lo può fare, perché c’è qualcuno che si può ergere, di volta in volta, a custode della “giusta ermeneutica”; e perché poi – come diceva il papa – la Chiesa è un soggetto che, pur vivendo e trasformandosi nel tempo, rimane se stesso. Non c’è dubbio: a chi altri poter attribuire un’identità “forte”, se non alla Chiesa? Ma si può applicare questo metodo a un’entità quanto mai terrena e transeunte quale è un partito?E a un partito, oltre tutto, molto giovane, senza una vera storia alle spalle e, come è del tutto evidente, dall’identità fragile e indefinita?
A dire il vero, la formula che usava Ratzinger (“rinnovamento nella continuità”) appartiene al lessico ordinario della politica: per esempio, era un’espressione ricorrente all’interno del Pci, anche in quegli anni Ottanta in cui si manifestano le prime gravi difficoltà di quel partito e in cui, come molte analisi storiche e politiche hanno dimostrato, sarebbe stata necessaria una più drastica “rottura”, in particolare nella collocazione internazionale del partito. E possiamo, di contro, ricordare forse il più noto esempio di “discontinuità” nella storia di un partito, la tanto citata (e spesso a sproposito) “Bad Godesbeg” della socialdemocrazia tedesca. Un caso, tuttavia, reso possibile proprio dalla forte identità storica del partito (la prima, grande organizzazione politica del movimento operaio), con un processo però in cui la “memoria storica” non veniva spezzata.
Ed è forse proprio qui che possiamo cogliere la “fallacia” dell’analogia prospettata da Ceccanti. Il Partito democratico, nel 2007, nasce “male” proprio perché muove dal presupposto della “inadeguatezza” e della insufficienza delle precedenti “appartenenze ideologiche”, e presume, temerariamente, di “inventare” una nuova identità. Al di là delle affermazioni di principio, la “memoria” delle storie e delle tradizioni precedenti viene di fatto spezzata: una “continuità ermeneutica” si rompe allora, semmai. Ed è ben difficile, oggi, che ci si possa ancorare a un’identità introvabile:si continua a evocare il “ritorno” all’identità delle origini, ma perché questa identità è stata smarrita? Se si pensa che occorra oggi “ritrovarla”, qualcuno evidentemente l’aveva persa per strada, lungo il cammino. O forse non c’era nemmeno all’inizio.
Un congresso “costituente” avrebbe dovuto, appunto, definire un nuovo profilo politico-culturale del partito. Non pare che, almeno finora, stia accadendo. E tuttavia, anche da questa disputa lessicale e interpretativa, in fondo marginale, si può dedurre qualcosa di rilevante, per le sorti del Pd e i possibili esiti di questo anomalo congresso: si ritiene che un declino costante di voti e di consensi sia da attribuire agli errori delle leadership che si sono succedute? E poi: a tutte in egual misura e per gli stessi motivi? O si pensa che vi siano ragioni “costitutive” e strutturali che hanno minato l’esistenza stessa di questo partito? Prima o poi, una risposta a questi interrogativi sarebbe necessario darla; e se non saranno gli esiti del congresso a farlo, saranno i fatti e gli eventi.