Abbiamo tanti boschi, non sarà il caso di metterli a frutto? È la sconcertante domanda che in piena e drammatica crisi climatica e ambientale si è posta la commissione Agricoltura della Camera dei deputati. Lo scorso 18 gennaio, l’organismo parlamentare guidato dal leghista Mirco Carloni ha convocato in audizione Nazareno Palmieri, generale di divisione, comandante del Comando carabinieri Tutela forestale e Parchi nazionali. “Generale come possiamo sfruttare a fini produttivi i nostri boschi?”: questa la semplice domanda che gli è stata posta. Oltre l’economicismo più banale, siamo nel campo predatorio. Ma il generale ha dato risposte articolate, interessanti.
Intanto i dati: l’ultimo inventario forestale nazionale certifica un progressivo aumento della superficie forestale di circa 500mila ettari. I boschi coprono il 37% della superficie territoriale nazionale, intorno agli undici milioni di ettari. Di tutta la superficie territoriale i boschi cedui rappresentando il 42%, i boschi ad alto fusto il 41%, la superfice forestale di aree protette è di 3,5 milioni di ettari, mentre la superficie sottoposta a vincolo idrogeologico è pari all’86%. La prevalenza del patrimonio forestale è privata, mentre i boschi sono in prevalenza di proprietà comunale e provinciale. Il punto è che i privati – dice il generale – non curato i loro territori come si dovrebbe, se non per i tagli produttivi (vendita di legna) che generano un eccesso di sfruttamento. “La provvigione media, ossia la massa legnosa presente in ciascun ettaro di superficie a bosco, in Italia, è pari a 165 mq, valore inferiore alla media: i nostri boschi” – ha spiegato Palmieri –“sono essenzialmente poveri dal punto di vista della provvigione per l’eccessivo sfruttamento degli ultimi due secoli, solo in Alto Adige e Trentino esistono complessi forestali più evoluti”. (Da notare: le quattro Regioni a statuto speciale e le due province autonome posseggono ancora corpi tecnici forestali che svolgono funzioni come: gestione tecnica e economica dei pascoli e dei boschi, regolazione dei corsi d’acqua e difesa del suolo, in particolare nei terreni montani, elaborazione dei piani di assestamento, questi ultimi propedeutici a qualsiasi valutazione che contempli l’utilizzo razionale dei boschi ai fini della conservazione. Le altre amministrazioni regionali ne sono sprovviste).
Sotto il profilo economico, ed è lì che batte il cuore della faccenda, il generale ha segnalato che il conto non riguarda solo la produzione legnosa: l’effetto bosco assume un’importanza a livello bio-sferico per la lotta ai cambiamenti climatici, nonché di conservazione idrogeologica e delle risorse idriche. Il calcolo del generale è basato su una proiezione dei dati della Regione Toscana, dove undici milioni di ettari di terreno sono boschivi: la valutazione economica totale dei servizi erogati alle casse pubbliche da quei boschi è pari a 601 milioni di euro annui, valore che, parametrato alla superficie nazionale, fa ritenere che i boschi versano servizi per circa sei miliardi di euro annui.
Questa stima prende in considerazione diverse questioni – ha detto Palmieri – spiegando che il valore economico legato alla produzione legnosa non è tutto, vanno anche considerati “la mitigazione degli effetti climatici per la difesa idrogeologica e l’approvvigionamento idrico”. Il patrimonio boschivo italiano svolge una funzione preventiva: un bosco “funge da effetto mitigante di ondate di piena”; inoltre,“dove c’è un bosco ci sono anche le sorgenti” e “un bosco bene efficiente è un formidabile apparato di assorbimento di carbonio”. Perciò “alluvioni, frane e incendi sono conseguenza della mancata gestione del bosco oltre che dell’azione di distruzione del nostro patrimonio forestale”. In questo senso, un’attenta gestione del patrimonio forestale e boschivo nazionale “assume un ruolo fondamentale” per “mantenere in ottima efficienza i nostri boschi”. Una gestione – ha puntualizzato ancora Palmieri – che deve essere “pubblica” anche nei boschi di proprietà privata.
Un aspetto terrificante, evidenziato dal generale, è quello dell’abbandono della coltivazione dei boschi, dovuto allo spopolamento delle aree montane. Frutto delle profonde trasformazioni socioeconomiche che hanno interessato il nostro Paese. Dal 1960 a oggi, secondo l’Istat, la montagna ha perso circa un milione di residenti. La presenza delle popolazioni montane è essenziale, perché le comunità montane sono fondamentali per la manutenzione attiva del territorio, in un Paese come l’Italia in cui rappresentano il 70% del territorio nazionale, anche a fronte del fatto che il Paese presenta conformazioni geologiche instabili, è predisposto naturalmente a fenomeni di dissesto idrogeologico. I boschi, intercettando le precipitazioni, evitano il dissesto del terreno. Mentre gli incendi boschivi sono un flagello che riguarda principalmente il bacino dell’area mediterranea, per vari fattori, tra cui le precipitazioni atmosferiche più rare, e sono il principale fenomeno di deforestazione di fauna e flora, e il bilancio dei fenomeni è aggravato dalla mancata copertura forestale. Il bosco funge da effetto mitigante delle ondate di piena dei bacini montani: senza il bosco, le precipitazioni aumentano le ondate di piena, e riverberano i loro effetti nei riguardi dei territori di pianura.
Fin qui ciò che il generale ha detto. Ma c’è anche qualcosa che ha omesso, a giudizio di un esperto del settore, Ezio Di Cintio, ex agente del dismesso Corpo forestale dello Stato, oggi nella segreteria della Federazione per la rinascita della Forestale ambientale (FeRFA). “I dati forniti da Palmieri danno la giusta dimensione della necessità dell’accudimento del nostro territorio boschivo, ora affidato all’Arma. La cura del suolo è insostituibile, e anche Palmieri ha fatto notare che la permanenza dell’uomo è necessaria per l’azione di manutenzione del territorio, beneficiandone anche le popolazioni di pianura, ma non ha mai fatto riferimento al patrimonio di risorse umane, scientifiche e tecniche del Corpo forestale dello Stato. Patrimonio che si sta disperdendo: eravamo novemila, siamo rimasti in tremila, e i nuovi non hanno lo stesso percorso specifico di formazione che avevamo noi. Intanto, le nostre scuole duravano un anno, oggi bastano tre mesi, poi oggi è tutto centrato sulle attività di polizia giudiziaria, che è un capitolo importante ma non centrale nel core business della Forestale, che è la tutela del bosco.
L’Arma assolve a grandi compiti, immensi. Sono la quarta forza armata, difendono dunque i nostri confini, sono a disposizione delle procure, combattono la criminalità organizzata. Non possono fare tutto. Infatti, non hanno più assunto biologi, geologi, dottori in scienze naturali. La loro impostazione al problema forestale è repressiva, com’è naturale per la loro gloriosa storia. Ma l’agente forestale è un’altra storia. Carabiniere-Forestale è un binomio che non esiste nella realtà, è nato dalle esigenze politiche della coppia Renzi-Del Sette (il presidente del Consiglio che varò la riforma consegnando su un piatto d’argento al Comandante generale dei carabinieri il Corpo forestale dello Stato, ndr). Anzi, aggiungo una piccola nota: nell’audizione il generale Palmieri ha citato il Piano Fanfani che, attraverso opere idraulico-forestali di rimboschimento, contrastò il degrado idrogeologico dell’intero Paese, nel dopoguerra, senza dire chi lo ha realizzato. Fu il Corpo forestale dello Stato che teneva i registri contabili, pagava le maestranze e svolgeva tutta la catena di attività necessarie per mettere in sicurezza la penisola. È troppo chiedere di ricordarlo?”. Forse è una dimenticanza, notiamo. “No, non lo è. Ci vogliono cancellare”, chiosa Di Cintio.