Il film di Alessandro Scippa, figlio di Antonio, uno dei pilastri delle giunte rosse di Valenzi nella Napoli a cavallo del terremoto del 1980, inaugura un filone che dovrebbe proseguire, forse, con un occhio meno domestico di quello adottato per questa rievocazione. Nel decennio 1975-85, l’Italia fu protagonista di un fenomeno che risulta ancora poco studiato dagli storici, e ancor meno metabolizzato dalla politica: l’avanzata possente e molecolare della sinistra, in un Paese di ceto medio subalterno, martoriato dal terrorismo politico, e angosciato da una crisi economica locale, con un’alta inflazione, che aggravava un contesto globale colpito dalla prima crisi energetica, successiva alla guerra del Kippur.
In questo scenario tipicamente sudamericano, che vedeva ogni giorno salire la paura nelle città per lo stillicidio di attentati e omicidi, con ondate di licenziamenti e impennate dei prezzi, invece di rintanarsi in un riflesso d’ordine reazionario e autoritario, il Paese, da Torino a Palermo, passando per tutte le grandi città (Milano, Roma, Napoli, Venezia), si apriva a una stagione libertaria – il referendum del divorzio del ’74 – e progressista, con la marea delle giunte rosse guidate da un poderoso Pci al cui vertice era l’astro di Enrico Berlinguer. Una vera rivoluzione “attiva”, potremmo dire, rovesciando la nota citazione di Gramsci sui ceti moderati.
Una contraddizione inspiegabile, fra una dinamica minacciosamente golpista e una risposta sociale palesemente riformatrice, se non di più, che portava in Italia studiosi e analisti di tutto il mondo per comprendere appunto il cosiddetto caso italiano. La trama forte che reggeva la crescita democratica del Paese, nonostante le oscure manovre destabilizzatrici interne ed esterne, era quella congiunzione fra un movimento operaio maturo e radicale, al tempo stesso, che trovò nella comunità studentesca un medium per parlare all’intera società, giungendo a scomporre e ricomporre anche caste e lobby professionali.
Le fabbriche – dalla Fiat alla Siemens, all’Alfa Romeo, al complesso degli elettrodomestici, all’ancora forte filiera siderurgica, la vera spina dorsale sia dell’apparato industriale nazionale sia della società civile, raccolta attorno alle ciminiere che punteggiavano lo stivale da Pordenone a Genova fino a Piombino, a Napoli e alla Sicilia – erano presidio democratico e scuola di una nuova idea di democrazia, che si chiamò consigliare. Oltre le mura delle officine, si ramificava nel territorio una cultura di liberazione, che combinava l’emancipazione delle forme di vita, a cominciare dalla riduzione degli orari e dall’autonomia individuale sul lavoro, con industrie e visioni sofisticate, che smembravano le confraternite professionali borghesi, aprendo varchi di libertà nella medicina (con Giulio Maccacaro), nella psichiatria (con Franco Basaglia), nell’informazione (con il gruppo di giornalisti e tipografi del “Corriere della sera”), nella stessa magistratura (con i “pretori d’assalto”). Una spinta alimentata da vene profonde della realtà italiana, come l’apertura conciliare nella Chiesa cattolica, che dai primi anni Sessanta cominciava a sgranare i grumi conservatori, che ancora guidavano la cultura cattolica. Più si sparava più l’Italia guardava alla sinistra, segnatamente al Pci, per rinnovare la sua pelle di Paese che ormai attraversava la fase industriale e già percepiva le prime ebrezze terziarie.
In quel processo, le città divennero laboratori straordinari di culture e di esperienze amministrative. I sindaci testimonial di un nuovo modo di vivere più che di gestire il territorio. Argan a Roma, Rigo a Venezia, Aniasi a Milano, Novelli a Torino, Zangheri a Bologna, e appunto Valenzi a Napoli, rappresentarono gli emblemi di una svolta in cui le culture locali prevalevano per la prima volta sul brand del partito, imponendo stili di vita politica del tutto inediti. A Roma, con Nicolini, si aprì la stagione dell’“estate romana”, che ruppe la plumbea cappa di timore imposta dal terrorismo; a Milano si sperimentavano le prime forme di economia municipale, con le prime multiutility che sfidavano i monopoli privati su gas, luce, acqua, e soprattutto le attività culturali della città. Torino non era più hinterland della collina agnelliana, ma diventava la città del lavoro della Fiat; e Napoli, con la giunta comunale che viene rievocata dal film di Scippa, si liberava dal giogo di Gava e del malaffare, dopo il sussulto del colera nel 1972, in cui il Pci divenne società civile organizzando l’assistenza sanitaria.
Questa straordinaria stagione, che ancora trova il modo di prolungare in molti casi la sua fertilissima storia ai giorni nostri, non venne adeguatamente analizzata e discussa. L’avanzata elettorale – nel ’76 il Pci sfiora il primato della Dc di primo partito italiano, e in alcune di queste città, come appunto Napoli, esplode fino a superare il 40%, segno di una pervasività e attrazione che arrivava a ogni latitudine della comunità metropolitana, in una realtà come quella partenopea che non è stata mai, né prima né dopo, istintivamente a sinistra – rifluisce già mentre si festeggia l’avanzata stessa, con la prima frenata del ’79, dopo lo shock del caso Moro, a livello nazionale, e le successive regressioni locali negli anni Ottanta, che ci portarono poi al fatidico 1989 della caduta del Muro di Berlino e dell’avvio dello scioglimento del Pci.
Cosa accadde? Perché un partito che, solo qualche anno prima, conquista il primato, superando la Dc alle europee del 1984, e soprattutto è ancora l’architrave della governabilità concreta dei cento campanili che formano il Bel Paese, si contorce nei complessi di colpa del fallimento sovietista fino a estinguersi? Perché, con Breznev al Cremlino, i notai e il ceto medio moderato erano attratti dalla falce e martello, e poi, con la terza via che parlava inglese, neanche più i militanti sembrano interessati alle sorti di quell’eredità?
Le domande che ci ripetiamo, ormai da almeno sei lustri, acquistano una innovativa vitalità se le caliamo proprio nei laboratori: perché a Roma, Torino, Venezia, Genova, Bologna, Napoli e Palermo le esperienze locali, che a volte sono state appannate da inconcludenza, spesso da velleitarismo, qualche volta macchiate da corruzione, crollano quando comunque avevano rappresentato una modernizzazione della vita in città, con straordinarie invenzioni sia gestionali sia di tipologie di servizi? Insomma, com’è possibile che, in poco tempo, evapori un patrimonio rappresentato da quell’ubriacante immagine della folla di mezzo milione di persone che ascolta Berlinguer nel 1976 alla Mostra d’Oltremare, al festival dell’Unità? Quel 40 % di voti al Pci come si è squagliato? Davvero, come qualcuno continua a pensare, la scomparsa del carismatico Berlinguer è la causa di tale decadimento? Davvero sono i suoi eredi, inadeguati per spessore e personalità, a causare il collasso del gigante? Oppure a Napoli è il terremoto, che certo fu una cesura che separa storicamente le due fasi delle giunte rosse in città, l’origine dell’accartocciamento della macchina comunista nel capoluogo campano? E perché mai una tale emergenza, che metteva in evidenza il fallimento del governo centrale e dava alle amministrazioni territoriali ruolo e voce per rappresentare una nuova idea di città, da opportunità divenne una tomba delle speranze rosse? Perché le energie e la visione che erano sottese alle ambizioni di una reale programmazione del territorio – che con Vezio De Lucia innestò a Napoli, per la prima volta, l’idea dello spazio come risorsa da non consumare – non trova modo di dialogare con l’esigenza del riassetto globale della città-regione?
Tutto questo nel racconto del regista non c’è, e forse sarebbe davvero ingeneroso chiedergli di colmare una tale voragine. Come recitava un murales del centro sociale Leoncavallo a Milano “il nostro destino è segnato più che dalle molte sconfitte dalle discussioni mai fatte”. E questa rimane una di quelle sospese.
Diciamo che vi sono lontanissimi echi, rimbalzati dalle emozioni famigliari di quel gruppo di esponenti che simboleggiarono il cambio dirigente della città: Aldo Cennamo, Berardo Impegno, soprattutto Andrea Geremicca, Emma Maida, e appunto il padre del regista, Antonio Scippa, i cosiddetti assessori. I famigliari, come i figli o le mogli, ci danno spezzoni di vita vissuta, con chiavi di lettura non banali, come con Federico Geremicca, che accenna alle scelte e vicissitudini del padre che, da giornalista, diventa dirigente e poi assessore.Vi si ritrova il senso del partito come grande focolare, che sostituiva persino i legami affettivi, e a volte li autorizzava.
Un partito che era percepito come riscatto di millenarie frustrazioni nei “bassi” come a Bagnoli, a Posillipo come a Secondigliano, e fino al Vomero. Sono gli anni forti che saranno poi la trama dell’Amica geniale di Elena Ferrante, che forse ci restituisce meglio di molti saggi politici, con asciutto rigore, la concatenazione di quella grande disillusione. Quel tunnel che, nella saga della Ferrante, separa la Napoli bene dai quartieri popolari anche con La giunta si allunga sempre più, nonostante le bandiere rosse in città, e percorrendolo, in mancanza di concrete strategie di emancipazione collettiva, ognuno trova individualmente il modo di acconciarsi a stare dall’altra parte.
Tanto più – ed è l’altra chiave del film, che andava forse più robustamente rappresentata – che decade e si scompone quel collante che fu l’etica operaia in città, con la dismissione dell’Italsider. Parallelamente al mosaico del “come eravamo”, che il regista compone con le interviste agli assessori della giunta, vi è infatti una timida rassegna di emozioni che la produttrice, Antonella Di Nocera, raccoglie fra i resti della fabbrica siderurgica napoletana, con il padre ex operaio. Quella storia forse contiene la vera risposta ai molti quesiti.
L’Italsider non viene ingoiata in una notte. È una lenta e non riconosciuta crisi che l’attanaglia prima, e la dissolve poi. Una crisi globale, che condanna la siderurgia italiana – per una visione miope e subalterna di quelli che ancora consideriamo colossi della storia nazionale, che guidarono il Paese, ma anche per l’opposizione e il sindacato negli anni Sessanta e Settanta. E nel quadro di una crisi locale, che soffoca e marginalizza l’impianto di Bagnoli secondo logiche puramente occupazionali. Soprattutto, non porta a una visione alternativa: e dopo quarant’anni siamo ancora a chiederci cosa fare in quel cratere nel golfo più bello del Mediterraneo. Così come rimane a mezz’aria la storia della delocalizzazione dei ceti popolari del centro, e tutta la storia di Monte Ruscello. Che idea di città la sosteneva?
Questo processo di deindustrializzazione – che vede contemporaneamente esplodere a Torino, nell’ottobre del 1980, la vicenda della Fiat con la clamorosa sconfitta operaia – conduce proprio a ragionare di un anno realmente di svolta, appunto il 1980, in cui la sovrapposizione del caso Fiat al Nord con il terremoto a Sud mette a nudo, ben prima della morte di Berlinguer, i limiti di un Pci che, paradossalmente, cresce sul terreno dei diritti civili, con le grandi campagne per il diritto al divorzio e la difesa dell’opzione dell’aborto, con il femminismo che apre gli occhi alla società, con le rivisitazione delle caste professionali, che vengono attraversate da una generazione più europea e trasparente, in cui i movimenti sociali percuotono le vecchie resistenze moderate e provinciali; mentre arretra e si consuma su quello, considerato più proprio, dei diritti sociali, con il mancato sbocco delle lotte operaie, che erano arrivate a porre in discussione il potere proprietario, e a contrattare le grandi strategie della politica industriale, della casa, dell’assistenza sanitaria. È qui, sull’osso del potere e non del reddito, che si infrange l’onda rossa.
Un’onda che aveva, proprio con le lotte sociali, l’egemonia culturale, e il presidio delle città, schierato, persino a sua insaputa, un esercito potente e persuasivo, che il capitale prese sul serio, più degli stessi dirigenti comunisti. Dalla fine degli anni Settanta, con il terrorismo, la commistione di mafia e politica, e quella strategia che spinse l’Occidente a uscire dalla crisi facendo consumare di più alla parte sociale che già consumava di più – della quale in Italia, per esempio, la privatizzazione dei sistemi radiotelevisivi fu elemento essenziale, con la moltiplicazione degli spazi pubblicitari –, che si comincia a riprogrammare il mondo, sostituendo il lavoro con forme di sapere e comunicazione che smaterializzano i rapporti sociali. La coincidenza fra crisi delle sinistre, di qualsiasi tipo e a qualsiasi latitudine, e questi fenomeni che chiamiamo oggi di digitalizzazione delle relazioni sociali, danno un senso e una motivazione a quella crisi antropologica, che ci interroga su come vivere in un mondo senza sinistra. E La giunta ci ricorda che ve ne fu un altro, posto però irrimediabilmente alle nostre spalle.