Era l’ultimo dei corleonesi che sfidarono lo Stato, alla ricerca di nuove intese con la politica e le istituzioni, per continuare la coabitazione. Matteo Messina Denaro fece perdere le tracce nel giugno del 1993, quando si rese ufficialmente latitante, ricercato per una serie di omicidi, accusato dal pentito Balduccio Di Maggio. Quasi trent’anni di latitanza. Sicuramente lui è stato un protagonista dell’epopea corleonese. La sua famiglia ha attraversato tutte le stagioni della mafia siciliana. Il padre, don Ciccio Messina Denaro, capomandamento di Castelvetrano, era il campiere del latifondo dei baroni D’Alì, che avevano la Banca Sicula, navi commerciali, terre. Gestiva i rapporti tra i lavoratori della campagna e i latifondisti. Il giovane Matteo fu mandato alla scuola di Totò Riina, diventando un suo sostenitore. “U siccu” aderì alla strategia stragista, anche se, negli ultimi anni, Totò Riina dal carcere si lamentò del “tradimento” del suo fidato allievo, impegnato ad affrontare i suoi problemi piuttosto che a ricostruire l’organizzazione.
Ricordate la prima serie fortunata de “La Piovra” del commissario Cattaneo (alias Michele Placido)? Il grande pubblico scoprì la provincia di Trapani, le banche, l’eroina, le logge massoniche. Questa è stata la forza, l’eredità gestita da Matteo Messina Denaro in questi trent’anni. Trapani era considerata la Svizzera della Sicilia. Con il riciclaggio e le attività criminali, in affari con la Cosa nostra americana.
La cronaca del dopo cattura dell’ultimo dei corleonesi racconta di covi scoperti, di cellulari e tabulati, che si spera possano arricchire la conoscenza investigativa della rete di complicità di Messina Denaro. Di certo, medici e “borghesia mafiosa”, imprenditori, la mafia bianca. Nulla però di sconvolgente, che non si sapesse già.
Il vero interrogativo a cui gli investigatori e i magistrati dovranno dare una risposta è se Messina Denaro abbia traghettato la Cosa nostra ferita a morte – con le retate, i pentimenti, gli ergastolani –, se le ha fatto spiccare il volo trasformandola. In questi anni, i magistrati siciliani, gli stessi investigatori, si sono divisi tra chi riteneva Messina Denaro morto, in conseguenza delle sue precarie condizioni di salute, o “scappato”, cioè molto protetto per il timore delle vendette degli uomini d’onore sconfitti dai corleonesi nella guerra di mafia del 1980. Ma c’è anche chi ha trovato ancora tracce di essi, e di Messina Denaro, nei rapporti di Cosa nostra trapanese con gli imprenditori.
Dunque lui ha traghettato la nave che stava affondando in un nuovo cantiere per trasformarla in un’organizzazione “liquida”, nascosta nei fondi di investimento, nei settori della green economy, nelle relazioni con la massoneria e con pezzi delle istituzioni. Ci si sbaglierebbe a rifugiarsi nell’accomodante “non l’hanno voluto catturare”, o “ha goduto di altissime complicità”. È vero però che personaggi come lui portano con sé i misteri di trent’anni di vita politica e istituzionale. Si è affermato, in quei drammatici anni Novanta, quando, neppure trentenne, fece carriera tra i killer più fidati dei corleonesi. Andò in trasferta a Reggio Calabria (nell’estate ’91), per l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. Secondo il mafioso catanese Maurizio Avola, lui e Salvo Lima, come pure magistrati al di sopra di ogni sospetto, avevano rapporti con la massoneria. Scopelliti fu ucciso da Cosa nostra, senza l’aiuto delle’ndrine calabresi. E Messina Denaro aveva rapporti con una “fonte” che gli indicò l’auto e la strada in cui sarebbe passato il giudice Scopelliti. Da allora, è stato protagonista di tutte le azioni di guerra dei corleonesi contro lo Stato. Con la sua cattura, si chiude una delle pagine più terribili della nostra Repubblica.
Tratto da “La Domenica” settimanale del “Corriere del Ticino“