Che la luna di miele tra il presidente tunisino Kaïs Saïed e la popolazione del Paese maghrebino fosse finita da un pezzo, lo sapevamo. All’indomani del colpo di Stato del 25 luglio 2021, i tunisini e le tunisine lo avevano acclamato, stufi com’erano di un governo corrotto e inefficiente che la massima autorità del Paese aveva esautorato dei suoi poteri. Ma già dal referendum dello scorso luglio (vedi qui), che doveva ratificare o meno la nuova Costituzione, l’afflusso alle urne è stato di un misero 27,54%: di fatto una sconfitta per Saïed, malgrado quella minoranza avesse approvato la principale legge del Paese, che accentra ancor più i poteri nelle mani del presidente. Un risultato che ha fatto capire come la popolazione sia già stanca della torsione autoritaria intrapresa dal capo dello Stato, la cui popolarità è in discesa anche a causa dell’ennesima crisi economica che sta colpendo il Paese.
Ora però, per il leader tunisino, giurista e docente di diritto costituzionale, è arrivata l’ora della resa dei conti. Nelle elezioni legislative dello scorso 17 dicembre, la percentuale si è ulteriormente ridotta, arrivando a uno sconcertante 11,22%, causato anche dall’invito a boicottare il voto da parte dei partiti dell’opposizione e del sindacato. Percentuale tra le più basse nella storia delle democrazie – seconda solo a quella della Giamaica, nel 1983, quando nell’isola caraibica andò a votare il 2,79% degli aventi diritto. Dato drammatico, se consideriamo che nel 2011, all’indomani della Rivoluzione dei gelsomini, il 52% degli elettori e delle elettrici aveva preso parte al voto, con un ancora più positivo risultato nel 2014, quando a recarsi alle urne fu il 69% della popolazione per poi scendere al 41,3% nel 2019.
La bassissima affluenza non condiziona affatto l’esito del voto, come recita la legge elettorale promulgata dal presidente il 15 settembre scorso, senza alcun tipo di confronto con le altre forze politiche. Insomma, non esiste un quorum – anche a fronte di un’astensione dal voto del 90% della popolazione, in virtù della quale il prossimo parlamento, di fatto, non rappresenterà nessuno. Sarà, oltre tutto, un involucro vuoto e unicamente consultivo, senza alcuna funzione legislativa e di controllo dell’azione dell’esecutivo. Aggiungiamo che la nuova legge penalizza le candidature femminili e i giovani sotto i 35 anni.
Invece, la data delle elezioni per il Consiglio nazionale delle regioni e dei distretti, una seconda Camera del parlamento istituita dalla nuova Costituzione, non è stata fissata. Il secondo turno è previsto per il prossimo 29 gennaio, e la già misera percentuale di partecipazione rischia di assottigliarsi ancor più, visto che nel frattempo le iniziative di protesta si sono moltiplicate, confermando come gennaio sia un mese caldo nella storia del Paese nordafricano. Proprio in occasione dell’anniversario della cacciata del dittatore Ben Ali (14 gennaio 2011), si sono riempite le piazze.
A Tunisi è stata registrata la più grande manifestazione degli ultimi anni, organizzata dalla sinistra e dalle forze islamiche moderate – malgrado l’eterno conflitto tra questi due mondi –, prima fra tutte Ennahda di Rached Ghannouchi, tornato in patria nel 2011 dopo vent’anni di esilio a Londra, facenti parte del raggruppamento Fronte di salute nazionale capeggiato da Nejib Chebbi, leader del Partito democratico progressista. Secondo quest’ultimo, in un articolo pubblicato dal “Fatto quotidiano”, “il sipario è stato calato sull’ultimo capitolo dell’agenda di Kaïs Saïed”. Dal canto suo, il più grande sindacato del Paese, la storica Ugtt (Union général des travailleurs de la Tunisie), sottolinea, da un lato, come “la democrazia non può essere messa in discussione”, ma, dall’altro, chiede l’apertura di un dialogo per affrontare la profonda crisi socio-economica che sta devastando la Tunisia. Un’altra protesta, minore, era stata organizzata dalla leader del Parti destourien libre Abir Moussi, formazione nostalgica del regime di Ben Ali, con l’obiettivo, fallito, di raggiungere il palazzo presidenziale di Cartagine. In un contesto che potremmo definire, senza ombra di dubbio, dittatoriale, non potevano mancare le denunce da parte di associazioni umanitarie, come Human Rights Watch, che nel suo World Report 2023 ha sottolineato come “le autorità abbiano adottato una serie di misure repressive contro oppositori, critici e personalità politiche, inclusa l’assegnazione di residenze fisse, l’imposizione di divieti di viaggio e il perseguimento – a volte nei tribunali militari – per critiche pubbliche al presidente, alle forze di sicurezza o ad altri funzionari”. Insomma, non proprio un bel vedere.
Ma il nemico più pericoloso della Tunisia, prima ancora del governo in carica, è la gravissima crisi economica, che ciclicamente attanaglia il Paese. Cominciano a scarseggiare i beni di prima necessità, come latte, caffè e zucchero, e i supermercati sono vuoti. Saïed ha denunciato una sorta di complotto per screditare la sua immagine in vista del voto – ma la realtà è un’altra. La Tunisia deve affrontare un problema serio con il Fondo monetario internazionale. La ministra delle Finanze, Sihem Namsia, ha smentito la notizia secondo la quale il Paese sarebbe assente dai programmi del Fmi, sottolineando che “il governo sta proseguendo i lavori per fissare una data di approvazione del dossier tunisino, all’attenzione della direzione del Fmi”. Il tutto finalizzato al conseguimento di un prestito di 1,9 miliardi di dollari, suddiviso in otto rate in quattro anni. In realtà, l’istituzione finanziaria internazionale avrebbe dovuto annunciare, già il 19 dicembre, la sua decisione definitiva in merito al prestito – ma questo non è avvenuto. Grande preoccupazione è stata espressa dall’Unione tunisina dell’industria, del commercio e dell’artigianato, per la quale – in una nota riportata dall’agenzia Novanews – “la legge finanziaria 2023 aumenterà le difficoltà delle imprese private e rappresenterà una seria minaccia per la loro sostenibilità, oltre a perpetuare una mancanza di visione e una perdita di fiducia nel futuro che perdura da più di un decennio, una situazione aggravata dalla pandemia di Covid-19 e dalle ripercussioni della guerra in Ucraina, che ha aumentato i prezzi, causando una grave carenza di materie prime di base ed energia”.
L’impossibilità – o l’incapacità – del governo di saldare i debiti che l’esecutivo ha con gli operatori economici è alla base di questa drammatica situazione. La Confindustria tunisina ha chiesto altresì l’apertura di una politica orientata alla liberalizzazione e alla semplificazione degli investimenti, nell’intento di rendere la Tunisia la migliore destinazione possibile per gli investitori, non solo esteri ma nazionali. Sullo sfondo, l’inflazione che, secondo l’Istituto nazionale di statistica, avrebbe registrato un tasso nel mese di dicembre del 10,1%, in aumento rispetto al 9,8 di novembre. Un trend preoccupante, che ha portato alla rimozione della ministra del Commercio, Fadhila Rebihi, anche se, dietro questa decisione, pare ci siano sospetti di corruzione e conflitti di interessi per accordi sulla fornitura di zucchero.
Questo contesto – che, secondo il governatore della Banca centrale, vedrà l’inflazione crescere ancora durante il 2023 per poi gradualmente scendere – rende più che mai necessario un accordo con il Fmi; ma certamente la grave situazione di instabilità rende tutto estremamente più complicato. Scenario che non può non preoccupare l’Italia, per almeno tre motivi: i flussi migratori, l’approvvigionamento energetico, e l’industria manifatturiera. “Gli arrivi dei migranti – sottolinea Novanews – potrebbero moltiplicarsi drammaticamente, con l’aggravarsi della situazione socio-economica, raggiungendo i picchi del 2014 (170mila sbarchi totali via mare) e del 2016 (180mila arrivi via mare). Non solo – aggiunge l’agenzia – il gasdotto Transmed, conosciuto anche come gasdotto Enrico Mattei, porta in Italia il gas algerino passando proprio per la Tunisia. E l’Algeria è oggi il primo fornitore di gas dell’Italia”.
Aggiungiamo che il nostro Paese è divenuto il primo partner commerciale della Tunisia, sorpassando per la prima volta la Francia, ed è anche un’importante piattaforma per l’industria manifatturiera dell’Italia. A Tunisi e dintorni, operano quasi mille società, che potrebbero aumentare preferendo il Paese nordafricano all’Asia, per ovvie ragioni logistiche.
Non può mancare il tema degli immigrati che arrivano dall’area sub-sahariana del continente, con l’obiettivo di raggiungere l’Europa. Se già il loro arrivo non era visto con piacere dalla popolazione tunisina, ora, di fronte alla crisi, il rifiuto non può che aumentare. Chi si fa portavoce di questa insofferenza è il poco conosciuto Partito nazionalista. Questa piccola formazione gode di circa trentamila sostenitori nei social, e ha organizzato una campagna nel nome della “difesa della sovranità nazionale”, attraverso una petizione, per chiedere l’allontanamento dalla Tunisia dei migranti irregolari provenienti dal centro e dal sud dell’Africa. Finora questa insofferenza sembra ancora confinata ai settori più retrivi della società, ma non è certo da escludere che, di fronte alla crisi economica, la tendenza xenofoba possa accentuarsi. Per fronteggiare questi problemi drammatici, tutto serve tranne l’instabilità politica della quale Saïed è l’unico responsabile. Il presidente dovrà essere in grado di fornire risposte adeguate ai gravi problemi che attanagliano il Paese: per farlo, con un minimo di credibilità, dovrà fare concessioni importanti alle forze di opposizione, messe finora in un angolo da una politica accentratrice e autoritaria.